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In scena

Cornelis Escher. Tre sfere II, 1946, litografia


PRIMA


Nerio aveva portato le mie borse per tre chilometri il giorno in cui rischiavo di perdere il treno. Quasi mi salvò la vita, quando mi prestò il denaro che non avevo avuto il coraggio di chiedergli. Per qualche mese abbiamo amato la stessa ragazza, abbiamo litigato ma siamo rimasti amici. Nerio: attore, atleta, mezzofondista formidabile (avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi). 
Ci eravamo conosciuti in teatro. Facevamo parte di una compagnia di filodrammatici. 
Mettevamo in scena commedie napoletane: Scarpetta, Eduardo, Viviani. A me davano parti in lingua, perché col napoletano ero scarso. Quasi sempre il nobile in disarmo, a volte il prete o l’avvocato maneggione. Nerio invece addomesticava le parole come nessuno; ti sparava dei gramelot incredibili: un genovese, sentendo il suo strascico di ueh e sfaccimme, lo avrebbe detto di Afragola; un napoletano il suo finto ligure se lo sarebbe bevuto in un sorso. Un giorno litigai con uno dei fondatori della compagnia. Si era nominato da solo capocomico; gli altri lo lasciavano fare. Mi disse che ero inadatto al repertorio napoletano. Con la mia dizione da speaker di Radio Maria e i miei modi delicati, ero perfetto per Shakespeare. 
Non mi sarei offeso, se non avesse accompagnato l'aggettivo col gesto di Isadora Duncan-Desdemona che chiede pietà a Otello, la mano sulla fronte.  
Non me la presi troppo. Cercai di strangolarlo. 
Nerio, che dalle quinte aveva assistito alla scena, intervenne per separarci.

Gli spiegai come erano andate le cose. Nerio stese il capocomico con un pugno solidale. 

Lasciammo la compagnia.

Ci perdemmo di vista. Ci rincontrammo due anni dopo.

Andammo a bere in un bar. Tre bottiglie di un vinaccio portoghese e un paio di un altro, locale, che faceva schifo pure quello.

Nerio voleva ricominciare col teatro. Sul serio. Voleva fare teatro, ma non nel solito modo. In quale modo non sapeva dire.

Detestava il dilettantismo, diceva.

"Mi piacerebbe che scrivessi qualcosa per me".

"Scrivo poesie...".

"Il teatro è una forma della poesia, se capisci quello che voglio dire".

Anni prima avevo provato a scrivere un raccontino, da cui si sarebbe potuto ricavare un atto unico.

"Dimmi un po'...".

"Due tizi fanno un viaggio in treno. Sono seduti uno di fronte all'altro, ma non si conoscono. Non si sa dove siano diretti. A un certo punto si capisce che sono stati chiamati alle armi. A fare la guerra, dico. Uno è italiano, l'altro austriaco".

"Mancano l'inglese e l'americano...". Il tono di Nerio è soave come una rasoiata alla gola.

"Lasciamo perdere...". Mi scoraggio facilmente, e ancora più facilmente lascio perdere.

"No, dai... continua".

"Alla fine si scopre che i due nemici sono la stessa persona". 

E giù la menata dell'eterno combattente senza volto, pupazzo rotto tra i pupazzi rotti, frantume della bottiglia, granello di forfora sulla spalla di un Dio distratto. Tutti vivi nella morte e morti nella vita.

"Sa di già sentito".

"Anna Karenina e Madame Bovary parlano entrambi di una donna che ha messo le corna al marito, ma non sono lo stesso libro". Cerco sempre di cavarmela con le citazioni, quando mi mettono alle corde. 

"Meglio restare sulla terra. Scrivimi un monologo. Vanno tanto i monologhi, in teatro". 

Neanche quella sembrava un'idea fresca di fabbrica.

"Anna ed Emma te le sei scordate?".

"Scrivo poesie, lo sai". Cercavo di chiamarmi fuori. 

"Non voglio offenderti, ma le tue poesie non sono granché. Secondo me sei più adatto alla prosa. Non alla narrativa, ovvio". 

Mi aveva fregato. Sarei stato il suo autore.

Si distese sul bancone del bar e si addormentò. 


DOPO


Non lo vedo per altri sette anni, durante i quali Nerio è sales manager di un'azienda alimentare norvegese, coltivatore di zafferano, fotoreporter, mediatore culturale in Niger e in Mozambico. 

(Queste informazioni non le ho avute da lui, che si limitava a dire di essere stato in giro.)

Un giorno Nerio mi telefona. Mi dice che di lì dieci giorni metteremo in scena il monologo; che - dettaglio da poco - non ho scritto.

“Dammi qualcosa di divertente e doloroso; mettici dentro l'ansia del disamore, il sesso, il corpo, la tua capacità di sorridere sull’orlo dello sprofondo. Il materiale non manca”. 

Boh.

Coinvolgiamo Cesare: reciterà con Nerio in un'appendice dialogata del monologo. Giusto per dargli un po' di enfasi. 

Cesare non sembra entusiasta. Nerio gli racconta di Gilberto Govi e degli altri grandi dilettanti, che di un gioco avevano fatto un mestiere.

“Odio il dilettantismo” ribadisce Nerio.

Cesare non sembra molto più convinto di prima. Accetta.

Scrivo il testo in una settimana infernale: sto male per una gastroenterite che in pochi giorni mi fa perdere cinque chili. Non lo dico per giustificarmi. Lo dico per giustificarmi.

Restano tre giorni per le prove. Nerio ha imparato la parte in un amen. Cesare ha avuto qualche difficoltà in più: lavora in officina, di tempo per studiare ne ha poco. 

Ciononostante, la prova generale non è una porcheria. 

Io qualche dubbio sul testo ce l’ho. Non mi sembra divertente; il dolore c'è, ma è inevitabile che il pensiero vada agli spasmi intestinali che ho avuto mentre lo scrivevo. 

"Doloroso è stato doloroso...".

“Battuta facile” dice Nerio.

“Abbi fiducia, amico mio. Il testo è buono. Ottimo”. Mi incoraggia.

Cerco lo sguardo di Cesare. Non parla. Potrebbe essere un buon segno: Cesare non manca di dire la sua, quando gliela si chiede, e soprattutto quando non gliela si chiede.

Ho scoperto dopo che quel giorno Cesare aveva il mal di gola e faceva fatica a parlare.

Nerio ha affittato un locale vicino allo sbocco della circonvallazione. Era stato un cinema, poi un jazz club, poi un locale notturno. Adesso è un ristorante-cabaret-teatro e altro. Il proprietario gli ha fatto un buon prezzo.

"Ci rifaremo della spesuccia con gli incassi". Che avremmo diviso in tre parti quasi uguali.

Mi rassicura il fatto che ci porteremo il pubblico da casa. Venti persone, minimo. 

"Ho garantito al proprietario che almeno due tavoli da dieci li avremmo occupati. Altrimenti la spesa raddoppierà: sarebbe un problema?".

"No no...".

Lunedì pomeriggio, giorno della rappresentazione. I venti spettatori sono sette. Occupano un tavolo al centro della sala.

Ce n'è un altro pieno, in fondo, vicino all'uscita. Contiamo otto teste. Non sembrano manichini. Otto sconosciuti vivi e paganti. 

Nerio è in fregola. Io sono preoccupato: otto estranei sono otto potenziali contestatori. Non sono pronto per le contestazioni. Né per farne né tantomeno per subirne. 

Nerio entra in scena. Sarebbe nudo, se non fosse per il pannolone che gli copre culo e coglioni. L'idea del pannolone è sua. Il pannolone invece era stato di mia nonna. A lei non serviva più.

Nerio soffia la prima frase calcando i semitoni; in quel monologo sdrucito scorre una specie di malinconia, che non può muovere il riso, ma sfuma in una lamentazione ironica sulla humana condicio. (Mi scuso per l'espressione pretenziosa: non voglio tirarmela con la cultura.) 

Il discorso triste-allegro sta in piedi, fino a quando arriva una battuta, che vorrebbe essere memorabile: 

“Sono un tipo precoce: ho solo trentun anni e sono già un fallito”.

Scoppia una risata sguaiatissima dal tavolo degli ignoti.  

Un tizio, forse ubriaco (ma che differenza fa?) ride esagerato. Ci prende per il culo. Nerio lo ignora e prosegue. 

Entra in scena Cesare. Altra risata finta. Cesare non ha ancora detto la sua battuta. 

Nerio è impassibile. Cesare rosso di rabbia e di vergogna. Ha recitato per quindici anni nella compagnia teatrale del ricreatorio salesiano: quella risata suonava come una pernacchia, e lui di pernacchie non ne aveva mai ricevute. Una sola volta, forse, al massimo due, ma mai appena entrato in scena. Non era mica buffo, lui. 

"Non possono trattarmin così, cazzo!".

Nerio gli fa l’occhiolino per rassicurarlo. 

Cesare sbotta: “Fallo a tua sorella, l’occhiolino”.

Sebbene il mal di gola gli sia passato, si rifiuta di dire la sua battuta.

Scende dal palco con un salto, prende il cappotto dall'appendiabiti e se ne va, lasciando a noi la gloria della disfatta, gli sguardi di commiserazione che gli amici rivolgono a me, l'autore, seduto in mezzo a loro. 

Tavolo degli amici, recita il cartellino-contrassegno poggiato sul bottiglione di vino sfuso. Il sapore di quel vinaccio con fondo di capperi non lo dimenticherò mai.

Il pubblico benevolo è ghiacciato nella fissità di uno sguardo di formalina. Interrogativo perplesso appuntito assente semicomatoso.

Andrea, seduto accanto a me, mi azzanna col sorriso da nutria lomellina:

“Ma davvero l’hai scritta tu, ‘sta cosa?”.

Studia da dentista, il bastardo. Gli auguro di diventare l'unico dentista povero dell'universo. 

Nerio resta in scena fino alla fine. Recita la sua parte e quella di Cesare, ne rifà i gesti sventolando le mani per spingere via le sillabe, ne riproduce la parlatura barilosa. 

L’ubriaco, forse sobrio, continua a sfottere, anche se lo spettacolo è finito da mezz'ora; alterna ritmicamente risate e colpi di tosse.

"Ma che bravi, 'sti ragazzi! Dovrebbero fare gli attori...". 

Nerio sbuca dal sipario e affronta il simpaticone: lo afferra per i capelli, lo trascina fuori dal locale. Torna dopo dieci minuti, la camicia bianca sporca di sangue. Sorride.

“Gli ho restituito i soldi del biglietto”. Si è divertito molto.

“Tu no?”.

Ripeto la storia della gastroenterite.

Nerio mi scruta con una tenerezza, che direi paterna, se non avesse cinque anni meno di me.

Sa che, se mi avesse chiesto di sfidare le rapide dello Zambezi su una canoa di polistirolo, avrei accettato come avevo accettato di scrivere quell'insulso monologo. Forse non subito, ma avrei accettato. 

Se avessimo assaltato il Palazzo d'Inverno, saremmo morti sotto il fuoco delle guardie, ma nessuno avrebbe riso di noi. 

“Mica hanno riso di me...” mi dice Nerio, abbracciandomi.



 


 

 

 

 

 




 

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