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Poyais

 


Avevo spedito un mucchio di racconti all’ultimo editore di una lista di centosette.

La risposta arrivò dopo cinque giorni.   

“La sua prosa è contraddistinta da un buon ritmo e da un’arguzia non disprezzabile” mi disse al telefono la signora Eufrasia, che dirigeva la collana Piccola narrativa.

Suonava bene quel “ritmo” riferito alle mie scempiaggini. 

“Non disprezzabile” significava “apprezzabile”, o la negazione esalava una sfumatura di disgusto?

Inutile sottilizzare. I pochi editori che mi avevano risposto fino allora, non erano stati così benevoli.

C’erano stati quelli circostanziati:

“Ho letto le sue cose con molta attenzione e devo dirLe che, purtroppo, con rincrescimento e considerate le carenze stilistico-strutturali, la mancanza, formale e sostanziale, di una visione delle realtà che esuli dall’introflessione egotistica nel privato eccetera”.

Quelli quasi incoraggianti:

“Originali sono originali…”.

Quelli allusivi:

“Per la depressione ci sono la musica, la pittura, i piegamenti sulle braccia”.

Quelli sospensivo-possibilisti:

“Dovrei rileggerli, ma non so se lo farò”.

Quelli consiglievoli:

“Ci lavori tanto: tra quattro, cinque anni potremmo riparlarne”.

Quelli epigrammatici:

“Ricorda il Tommaso di Giuseppe Giusti? Lo copi…”. [1]

Quelli monosillabici (i più scientifici):

“No”.

Avevano tutti dei buoni argomenti, i figli di puttana.

Stavolta la conclusione pareva diversa.

“Si può pensare a una pubblicazione. Venga a trovarmi a P.”.  

Aveva parlato addirittura di un anticipo. Camminavo a mezz’aria.

La signora Eufrasia Galàtone non dirigeva solo la Piccola narrativa, ma anche la poesia, la saggistica, la Grande narrativa e le altre ventitré collane della casa editrice. La Poyais Edizioni era sua.

L’aveva fondata nel 1998.

Il suo motto era: Wenn du schreibst, machst du uns glücklich. (Se scrivi, ci fai felici. Chissà perché lo aveva pensato in tedesco.)

Della Piccola narrativa fino a poco tempo prima si era occupato il figlio. Me ne mostrò la foto, che teneva incorniciata sulla scrivania.

Non era suo figlio, ma le sarebbe piaciuto che lo fosse.

“Non è bellissimo? Dicono tutti che è il sosia di River Phoenix”.

“Bel ragazzo, sì”.

Di River Phoenix aveva la fronte malinconica all’ombra del ciuffo ondoso. A differenza di River Phoenix però era bruno e tutto spigoli; come se avessero passato la sua faccia nel tostapane. 

Somigliava un po’ di più a Woody Harrelson; che però non aveva la sua mandibola da masticatore di sassi.

Non somigliava né a River Phoenix né a Woody Harrelson, ma brutto non era. (Odio le descrizioni.)

“Mi ha lasciata sola…”.

Ha voglia di parlare di quel ragazzo di ventisei anni. Si occupa lui della narrativa. Cioè se ne occupava. Parla sette lingue. Fa l’interprete; è sempre in giro per il mondo. Non le telefona mai e lei ne soffre.

“Sogna di fare il regista. Vorrebbe girare un film su Chiang Kai-shek, ma non è facile: avrebbe bisogno di un finanziatore”.

“Capisco…”.

“Fosse solo quello il problema… Quando si è così belli, si rischia di fare ombra agli attori. 

Un regista più bello dei suoi attori è attira tanta invidia”.

Continua a parlarmi di quel ragazzo bellissimo e ricco di talento.

“Il mio libro…”.

“Come, scusi?”.

“Sono qui per il libro…”.

“Certo, certo… Una biografia di Santa Teresa di Lisieux, giusto?”.

“Sono racconti”.

“Mi scusi, mi confondevo con un altro autore. Ha mai pensato di scrivere una biografia? Magari di un santo o di un truffatore internazionale?”.

“Chissà”.

“Ci pensi: i racconti non li legge nessuno. Mi ricordi il titolo del libro, per favore”.

Non voglio morire di nuovo in Svizzera”.

“Ah, sì, sì… Libro splendido… splendido”.

“Sono felice già che lo abbia letto”.

“Mica l’ho letto”. Mi risponde distratta, diteggiando il display del telefono.

“Non lo ha letto?”.

“Non ne ho avuto il tempo. Le copie del suo libro le abbiamo già impacchettate”.

“Ha detto che era splendido…”.

“Tutti i nostri libri sono splendidi”. È seccata: mica dubitavo della sua buona fede?

Nell’ufficio entra un uomo. È vecchio, secco come una musciska e ha lo sguardo triste.

“Ho spedito il pacco al professor Lopes”.

“A nome tuo?”.

“Come mi avevi chiesto”.

“Bravo. Prepara il pranzo”.

La mucishka chiude la porta.

È mio marito. È semianalfabeta, ma nelle faccende pratiche è un genio”.

Mi consegna le copie del libro. Mi presenta il conto. Un anticipo sulle spese.

Con lo “sconto riservato agli autori particolarmente meritevoli, fanno duemila e ottocento Euro”.

Era quello l’anticipo di cui aveva parlato.

“Avevo chiesto trenta copie e mi avevate detto che non le avrei pagate”.

Si scusa; un errore dell’ufficio commerciale. Uno zero aggiunto per sbaglio. Se fossero state trenta, non le avrei pagate. Ma erano trecento.

“Se non le acquista, saremo costretti a smaltirle”.

Non erano questi i patti.

Si scusa per l’errore. Piange.

“Mi perdoni, il lavoro è tanto. Dormo due ore a notte… Sia comprensivo, si prenda le copie. Potrà pagarle a rate”.

“Perché dovrei comprare delle copie che non ho richiesto? Parli con l’ufficio commerciale e risolva il problema”.

“L’ufficio commerciale è mio marito”.

“Risolva il problema, le dico!”.

“Lo ha visto mio marito, sì? Sa che ha un tumore alle ossa? Lui crede di avere la mononucleosi… Difficile che superi l’inverno…”. Piange.

Riprende a parlare del figlio-non figlio. È a Giacarta; non sapeva per farci cosa.

“Non mi telefona mai. Mai! Mai!”. Piange.

Prenderò le trecento copie. Sfoglio il libro. Sulla copertina c’è scritto “Romanzo”. 

Io non avevo scritto un romanzo.

“Si chiama editing”. Non piange più. Ha un'espressione sarcastica, al limite del disgusto. 

“Il titolo… Anche il titolo è diverso. L’innocenza di Gregor McGregor… Che roba è?”.

I miei racconti sono diventati una biografia romanzata di Gregor McGregor. Che non so chi cazzo sia.

“Non lo conosce?”.

“Non lo conosco e non mi interessa conoscerlo!”.

Mi racconta la storia di Gregor McGregor.

Mi parla della bellezza degli scrittori. Lo aveva conosciuto così, il figlio-non figlio.

Le aveva inviato una raccolta di poesie. Belle, certo. Ma era stata la foto che accompagnava il file a convincerla a pubblicarle.

"Quegli occhi tuffati nel silenzio della controra...". 

"Come, scusi?".

(Il video...)

“Pensi a quanto era bello Ted Hughes. E Rimbaud? Crede che ne parleremmo ancora, se non fosse stato così bello?”.

Cerco di obiettare qualcosa.

“Lasci stare, la prego. È evidente che lei non legge poesie".

“Non leggo altro”.

“Appunto. Se non legge altro, non legge bene quello che legge”.

"Può darsi".

“Quanto ha fatto soffrire Sylvia...”.

“Chi?”.

“Quel bastardo di Ted Hughes... Ah già, lei non legge i poeti”.

 

 

 

 

 



[1] Tommaso, che portò fin dalla culla / La dura soma d’una vita oziosa, / Stanco di non far nulla, / Un giorno s’ammazzò per far qualcosa. Giuseppe Giusti, Epigrammi.

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