Milius, L'ora di ginnastica |
E poi il potenziale
inespresso, il pensiero che tartaglia, l'ansia della pagina bianca (Mallarmé, non
rompere), la paralisi del non detto o del meglio
non dirlo. La paura che prende i più consapevoli. E lei, la Grande Scusa imbellettata:
il tempo che manca. La concentrazione che balla nelle ore più fertili. Il
lavoro, il matrimonio e la famiglia, inventati per disturbare il flusso
creativo:
"Il pianto di quel
piccolo bastardo mi impedisce di scrivere! Ficcagli la tetta in bocca!".
Una voragine che ingoia milioni
di sguardi attoniti e di povere malinconie.
Possibile
che la tua sfiducia nell’uomo non produca una poesia decente?
Possibile
che il tuo nichilismo ti suggerisca solo pensieri banali?
Possibile.
Non so se siano più infelici
gli scrittori, che non riescono a pubblicare o quelli che pubblicano e restano,
nel migliore dei casi, nella penombra. Non distinguo tra "scrittori"
e "scriventi", perché è una separazione fittizia, sostanziale solo in
apparenza. Conta il prodotto finito. Non tutte le opere sono belle o brutte
allo stesso modo; ma la psicologia impiccata ai rimorsi, i tremori, la vanità
che sfinisce, le illusioni elettriche che a poco a poco si esauriscono e ti
lasciano a terra, sgonfio come un salvagente sfiatato, sono gli stessi. Per gli
scrittori autentici e per gli altri.
A me interessano gli altri: i
senza talento con l'indole giusta.
Conosco poetesse che alle loro
raccolte danno titoli come: La rugiada
del rimpianto, La mia anima in piena,
Mute stelle mutate in stille.
Hanno madri che vivono fino a
centosei anni. Sono maestre in pensione. O casalinghe. O impiegate delle poste.
O segretarie di dentisti. Alcune hanno avuto un esaurimento nervoso, da cui si
sono riprese a fatica. O da cui non si sono riprese mai. Hanno figli che fanno
i cuochi in Olanda. Oppure non hanno figli, non si sono neanche sposate. Come
le poetesse vere: Emily, Cristina e le altre.
Ma io invidio quelle che
infiorano versi con parole stinte; che parlano di penitissimi recessi dello spirito, desiati oblii, arbusti divelti dal canto della Bora, rimorsi che
palpitano tra le rovine del disamore.
Mi interessano i romanzieri a
caccia delle idee che non hanno, e chiedono agli altri di raccontargli storie
per farne letteratura.
Uno scrittore potenziale ha tampinato
un salumiere di Torre Annunziata per mesi, dopo aver saputo un dettaglio della
sua biografia. Il salumiere era stato membro di un gruppo anarchico, come tanti
altri salumieri. Aveva viaggiato parecchio. Aveva avuto molte donne, si era
prostituito in Sicilia (così diceva) e a sessantadue anni aveva smesso di
tingersi i capelli. Ma quello che incuriosiva lo scrittore era altro.
"Mi hanno detto che sei
stato in galera".
"Un reato minore...".
"Sei stato in galera,
ottimo. Racconta. Giuro che non lo dico a nessuno. Solo un accenno nel mio
romanzo sulla tua vita. Prometto che cambierò i nomi. Era il carcere di V.?".
Era il carcere di V., ma il
salumiere non volle raccontargli il resto della storia, e lo scrittore
potenziale tale è rimasto fino a oggi. Se non ha pubblicato il suo romanzo, se
non lo ha neanche scritto, non è colpa sua, ma di un salumiere reticente.
Stupidamente, vigliaccamente reticente.
"Cosa gli ho chiesto? Di
raccontarmi una storia banalissima. E lui non ha voluto, lo stronzo. E io il
prosciutto lo compro da un altro…".
Ecco la riga della separazione
tra Henri Charrière che raggiunge il Venezuela, e Henri Charrière affogato
nell'oceano, perché il Venezuela non è mai esistito.
Fondamentale è la negazione
dell'autobiografia. Specie quando è innegabile. Lo scrittore, per non sentirsi
sminuito nel suo talento, nega sempre di avere composto un'autobiografia. Nega
anche che ci sia un solo elemento che puzzi di autobiografia nei suoi romanzi o
nelle sue poesie. Sebbene abbia dedicato la sua opera intera alla madre o al
fratello, e lo abbia dichiarato nel titolo: Poesie
per Antonia, mia madre, Mio fratello
manovale a Cape Town. (La madre
in realtà si chiama Giovanna; il fratello ha fatto il carpentiere a Giacarta:
questo darà forza alla perentorietà con cui negheranno di aver pescato merluzzi
in pescheria.)
Se uno scrittore ammette di
avere raccontato i fatti propri, confessa l'incapacità di inventarsi altre vite
e altre storie. L'inesorabile raccontare storie, con cui i narratori, anche i
più scadenti, affumicano le presentazioni dei loro libri.
"Voglio solo raccontare
storie". "Quello che mi sta a cuore è raccontare storie".
Nessuno è mai sporcato dal
dubbio che certe sottolineature siano inutili. È illogico fotografare una
capanna e dire:
"La vedi, la capanna? La
vedi, sì?".
A volte la capanna non si vede
nemmeno se la indichi.
Nessuno scrittore si accorge della
larva di fruscolo, che gli si arrampica piano sulla spalla. Ha il volto di
Lello Arena: con gli occhi napoletani sbircia la pagina imbrattata di arabeschi
autobiografici, fa una smorfia di disgusto e dice che sì, è tutto vero, gli scrittori fanno solo questo: qualsiasi cosa
scrivano, raccontano solo le cose che gli capitano. Anche se non vogliono
ammetterlo.
C’è chi distingue tra autobiografia e autobiografismo.
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