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Il poeta mimetico



I gigli vorrei calpestarli tutti. Detesto il loro candore, che nessuno schizzo di fango può macchiare. Maledette le metafore e le similitudini, maledetto chi me le ha soffiate nell'orecchio la prima volta. Chi ti rovina è la maestra che ti ascolta e ti chiede di “coltivare il fiore” che nessuno ti ha dato, e sigilla la frase con la firma sulla pagella, perché qualcuno ci creda davvero, che sei un poeta alto un metro e trentotto, anche se tu cos’è la poesia non puoi saperlo. (Che non può saperlo nessuno l’ho capito tardi.) Maledico anche le mie maledizioni inzuppate di nostalgia, parola che mi piaceva tanto quando giocavo al piccolo Gozzano. In realtà ci sto dentro con tutti i calzoni, in questa ossessione stanca che toglie il sonno e non dà niente in cambio: la ricerca delle parole giuste, esatte, pesate una per una, le parole schiette come il vino che allappa, le parole oneste, le parole che “ri-nominano il mondo” e altre cazzate simili. Privilegio da mendicanti con la mano stesa per l’elemosina dei piccioni.*

Pasqua Rosina Razionale… ci può essere un nome-e-cognome più assurdo per chi scrive poesie? Nessuno ammette di essere invidioso. Io l'invidia la conosco e posso dire che mi ha quasi ucciso. Andavo a scuola. Qualche volta ci andavo volentieri. La maestra era una brava donna senza marito, devota a Dio e ai santi. Dolce di una dolcezza biliosa, sembrava incapace di offendere uomini, animali e cose, finché non le saliva agli occhi una rabbia che, quando esplodeva, era il terrore mio e dei miei colleghi in grembiule. Era buona, ma ogni tanto si incazzava e sembrava il secondino pseudo-Bud Spencer di Fuga di mezzanotte, quando si toglie la cintura per farglielo vedere, a quel drogatello, che pure fumava roba leggera. Ci invogliava a studiare come si incitano i ciclisti scalatori, che rinculano con l'anima schiantata sul sellino.

"Studiate, che poi vi do una cosa bella". 

Che poteva essere un giornalino; che immancabilmente era un giornalino. C'era anche il premio per il più bravo della settimana, del mese, del quadrimestre, con la graduatoria finale dei migliori. A qualcuno questo sapeva di istigazione al compagnicidio, e forse non aveva torto. Però funzionava, perché studiavamo quasi tutti. Dopo ho capito che chi non studiava, non era solo uno sfaticato: era un germoglio di rivoluzionario, un Che Guevara in scala armato di indifferenza. Un mercoledì, Pasqua, la più sveglia della classe, fina conservatrice, portò a scuola un manufatto: una poesia che aveva scritto il giorno prima. Era dedicata a Severino il Cicloamatore, un mistico morto a ventisette anni nel 1934. Il poco che ne sapevamo ce lo aveva raccontato la maestra, che forse se lo era inventato. La poesia però esisteva, e conteneva un'immagine che brillava di una bellezza sacra e carogna: una similitudine. Così l'aveva definita la maestra. Una similitudine. L'anima del mistico paragonata al candore di un giglio. Io non sapevo che i gigli fossero candidi; ignoravo il significato preciso dell'aggettivo, e anche quello vago, ma mi prese un sentimento che faceva sbiancare le incazzature della maestra. Ero gonfio di  un'invidia che non avevo il diritto di manifestare, pena lo sputtanamento in classe:

"Sei invidioso?! Torna nel tuo fosso. Fai schifo agli uomini e a Dio!".

Invidiavo quella leccaculo, perché aveva scritto una poesia; una poesia con dentro una similitudine, e io no. Cos'era una similitudine? Alla maestra non potevo chiederlo, ora che accarezzava la testa della mia nemica, avvolgendo l'indice nel nodo dei ricci. La maestra e i suoi incoraggiamenti: l'origine delle mie disgrazie. Lesse la poesia di Pasqua davanti alla classe fintamente assorta. Mi sarei distratto anch'io, se avessi saputo che stavo ascoltando le parole della mia condanna. Ero infossato nella mia ombra, sotto il dominio di un'invidia, che aveva il mio stesso volto e mi strappava la gioia dal cuore. Avrebbe pensato e preso decisioni al posto mio. Arrivato a casa, mi chiusi nella stanza: scaricai sulle pagine di un quaderno a righe una frega di versi di dieci, dodici sillabe al massimo, li incolonnai e intervallai le strofe di spazi bianchi. (Il senso di quel vuoto tra un mucchio di versi e l’altro, non mi era chiaro, ma dava all'insieme un tocco di stile strepitoso.) Non posso dire di essermi divertito: fu più faticoso della prima (e ultima) arrampicata sulla pertica, con la panza che mi cascava sul pavimento, a ricordarmi che ero fatto per la terra e non per il cielo.

La cima della pertica stavolta era mia, la panza un sofà per i pensieri. Nel giro di tre ore mi era uscito dalle mani qualcosa che somigliava a una poesia. Ero stato bravo, ci avevo ficcato dentro un’immagine coraggiosa: paragonavo l'anima di Severino, che mulinava i pedali verso l'assoluto, a un sole che perde i petali. Un fiore di luce spampanato. L'anima come un sole morente: la rileggevo e ne ero entusiasta. Altro che gigli smerdati dal fango...

La lettura della poesia in classe fu quasi un trionfo; solo un po' più spelacchiato di un trionfo confezionato ad arte. Un sorso di novello con un bouquet di alici. I miei compagni non ci avevano capito niente, ma sembravano sorpresi come davanti a un gioco d'acqua a ritmo di musica: mica devi capirlo per sapere che è bello. Filomeno William si offrì di recitarla nell'aula magna, davanti alla scolaresca schierata in parata militare. Filomeno William era un ripetente, ma soprattutto un ventriloquo. Scandendo i miei versi a bocca chiusa avrebbe sconvolto tutti. Avrebbero avuto la sensazione di un canto eruttato dal fondo della terra. Forse lo stronzo mi prendeva in giro. L'idea era difficilmente proponibile al preside, che detestava il situazionismo e tutto ciò che non rientrava nell'ordine degli eventi verificabili. Soprattutto detestava Filomeno William e la sua precocità sessuale. Ma ero o non ero il più grande poeta del circondario? Una lettura pubblica era il minimo che mi si potesse concedere.

Preso da frenesia oratoria, abbozzai un discorso. Una sorta di prolusione-lectio magistralis, che avrei tenuto per presentare la mia opera. Il mio ego si espandeva all'infinito; alle nove e mezza del mattino raggiungeva le dimensioni somatopsichiche di un capodoglio in amore. 

La proposta di Filomeno William passò alla maestra, che disse che ne avrebbe parlato al vice-preside, che ne avrebbe parlato al preside. 

La lettura in aula magna non ci fu; col preside non aveva parlato nessuno. 

Eppure la voce della lectura girò per qualche settimana tra le classi. 

Bastò a fare di me una celebrità senza nome. C'erano quelli che, vedendomi passare nel corridoio, si davano di gomito:

"Quel trippone non è il poeta della quarta H?".

Magari dicevano altro; di sicuro si davano di gomito e qualcosa dicevano. Il mondo conosciuto si stava accorgendo di me.

I complimenti della maestra mi davano fastidio; suonavano falsi e mielosi e io non ne avevo bisogno. La considerazione altrui era la conseguenza naturale della consapevolezza che avevo del mio genio. Presto uno sbuffo d'aria avrebbe spazzato via le mie povere certezze, ma quel momento mi pareva inespugnabile; ne succhiavo tutta la liquirizia.

Mi specchiavo nell'umiliazione di Pasqua, lo sguardo opalescente come quello della bestia, che sente avvicinarsi la morte nel macello. Mi sbagliavo: stava ruminando la sua vendetta. Concentrandomi un po', avrei sentito uno scricchiolio nella sua testa ronzante di ambizioni: pensava a una poesia piena di similitudini inimmaginabili, metafore, calembours, astruserie barocche. E lei della poesia barocca non sapeva un cazzo, come me. Góngora contro Quevedo. Chi di noi era Góngora? Chi Quevedo? La maledetta tre giorni dopo arrivò con un plico in mano. Sembrava un pacco regalo dell'amministrazione penitenziaria. Conteneva dei fogli, cinquanta, forse cento. Una raccolta di poesie chiusa in una busta azzurra, sigillata con una rosa di ceralacca. Aveva stampato il titolo sullo spazio del destinatario: Silloge della dimenticanza. Silloge?! Cos'era una silloge? Il capoclasse, pronunciando la parola con l'accento sulla o, lo chiese alla maestra, che lo chiese a Pasqua, perché lo dicesse a tutti. 

Una messinscena patetica. La maestra ne sapeva quanto noi; era di un'ignoranza ministeriale, la santocchia.

"Viene dal greco; sta per raccolta" ci spiegò Pasqua, mentre la vecchia annuiva con competenza.

Il trucco era evidente: tutti sapevano che sua madre insegnava il greco antico, e che scriveva orrende poesie sulla droga e sugli animali maltrattati. 

Tempo fa al Caffè Platti di Torino ho incontrato un critico letterario lionese, che la parola "silloge" non l'aveva mai sentita. Io l'avevo pronunciata distrattamente, nel mio terribile francese, inserendola nella conversazione per accompagnare un mucchio di poesie, che volevo fargli leggere:

"... ma dernière... sylloge ou, si vous préférez, mon dernier...". (Era maschile o femminile?) 

La parola era esplosa come una granata, frantumando quel po' di benevolenza che il critico sembrava volermi concedere.

"Sylloge? Qu'est-ce que ça veut dire?" mi disse nel suo ottimo francese.

Glielo spiegai, e lui rise come ridono le caricature dei gerarchi nazisti nei brutti film di guerra (e pure in quelli belli).

"Mi perdoni, perché non usa un sinonimo meno ricercato? Le sembrava troppo banale? Mi porti i testi quando saranno diventati una raccolta". Questo me lo disse in italiano.

Difficile spiegargli che in Italia una raccolta di poesie è sempre una "silloge". Che l'editoria italiana è piena di raccolte grecamente promosse a sillogi, e di sillogi che non hanno il coraggio di chiamarsi raccolte. Se un critico letterario francese di mezza età ignorava il significato della parola, poteva mai saperlo un'apprendista poeta di nove anni? (li avrebbe compiuti a maggio, ne aveva ancora otto). Non era possibile che le sue conoscenze linguistiche superassero quelle di un critico militante. Non era la certezza di avere ragione a molestarmi, ma il dubbio che potevo avere torto. Che lei il termine lo conoscesse e lo usasse abitualmente. La presenza della madre professoressa diventava trascurabile: quasi tutti i miei amici figli di insegnanti hanno imparato a leggere, con grande fatica, non prima della quarta elementare. Invece Pasqua a otto anni e nove mesi distingueva tra sillogi e raccolte, sapendo che erano sinonimi. Giocava con una parola, che le ballava sulla lingua come una bolla di saliva, e imprigionato nella bolla c'ero io, il mio orgoglio ridotto al lamento di un batterio. Volevo morire, ma prima dovevo lasciare un segno del mio passaggio sulla terra. Una disperazione che non dà frutti è una malinconia truccata. Non è quello che fanno i poeti, prendersi l'ultima parola davanti alla morte? Avrei composto un poema, cioè una poesia lunghissima, di almeno ottocentocinquanta versi. Mi imposi di finire il lavoro in poche settimane. Nel periodo passato col naso in su per filtrare le idee, che si scazzottavano nella mia testa, il mio rendimento scolastico precipitò. Fu la stagione intellettualmente più fertile della mia vita. Mai goduto tanto per un’insufficienza in storia. Durante un'interrogazione sugli Ittiti, risposi che solo i poeti avevano il diritto di fare domande, e che la storia ammazzava la poesia nella culla. (L'espressione dovevo averla orecchiata in tv da un attore con la bocca ricottosa.) Lo zenit dell'esaltazione. Gli Ittiti erano stramorti con i loro bla bla ingoiati nell'argilla; io un po' di rumore potevo ancora farlo.

I pensieri prendevano corpo. Il sangue mi illuminava le vene, mentre scrivevo versi per uno di cui non mi fregava niente. Un mezzo santo che forse non era mai esistito. Severino, gli Ittiti, impastavo tutto in una lingua inventata, fatta di consonanti che trituravano vocali, suoni gutturali, interiezioni, fulminei a capo che sminuzzavano le frasi in particelle di musica pura, enfatici intarsi a caratteri d'oro: le parole di Severino nel delirio delle visioni, mentre scalava il Sacro Monte.

L'ambizione senza talento pretende tempi brevi. Dovevo finire il lavoro il prima possibile, soprattutto per anticipare le mosse di Pasqua, che non poteva assistere passivamente alla mia ineluttabile incoronazione in Campidoglio.

Intanto la provocavo biecamente: gongolando. Era la cosa che mi riusciva meglio, gongolare. La fissavo nelle pupille e le dicevo che i veri poeti non scrivevano sillogi della cippa, ma poesie infinite. Ora me ne vergogno, ma questo le dicevo. Le dicevo ciò che nessun poeta dovrebbe mai dire a un collega:

"Io sono più poeta di te".

Il miagolio del bambino grassoccio è insopportabile in sé. Aggiungici il tono da saputello egomaniaco. Mischiaci presunzione, saccenteria, mancanza di misura e di delicatezza. Frulla la poltiglia e versala in una formina con le fattezze dell'idiota che ti guarda dallo specchio. Il risultato sono io, vanaglorioso molestatore del nulla. Se la sconfitta fosse stata tutta lì, nella consapevolezza tardiva della mia supponenza, si sarebbe trattato di una disfatta dignitosa. Ma io mi stavo vantando di un'impresa che non avevo compiuto.

Pasqua mi atterrò con poche parole:

"Sei più poeta di me? Va bene".

Sorrideva. E lì il mio ego cominciò a sfiatare. Anche perché non sapevo come procedere in un'opera tanto ambiziosa. Il poema non riuscii a finirlo. Mi fermai alla quinta strofa: una trentina di versi in tutto. Confesso che la riserva delle idee si era prosciugata molto prima di arrivare alla terza strofa. Da lì in poi, andai avanti stancamente, sperando che me ne sarebbero venute via via di belle, grosse e gonfie come pustole, ma niente. Insieme alla fantasia, era svaporata la voglia di alimentare la faida che ci vedeva contrapposti da un quadrimestre. Góngora il Fatuo e Occhiolungo Quevedo.

La faida era finita, perché tale era stata solo per me. Un nemico così sereno nel trionfo non lo avrei incontrato mai più. Lei che, sorridendo dei miei insulti, mi umiliava due volte. Evito la retorica bolsa con cui si divertono i poeti di oggi; quelli che dicono che la poesia è sempre in guerra con la vanità; che scrivere versi è solo

scrollare un peso

e passare al seguente...[1]

E fosse un peso e basta. Bisogna liberarsi del peso dell'io. Se no mica si è poeti; al limite poetanti. Questo dicono i poeti, tutti svuotati dell'io, che, se non hanno ricevuto un premio, smadonnano, spruzzano praline fecali sulla commissione che li ha ignorati, sui vincitori, sui finalisti, sui menzionati, sui segnalati o a malapena citati. E poi quelli che si premiano tra di loro, e fingono di essersi incontrati per la prima volta il giorno della premiazione. Gli amici giurati che infestano i concorsi di poesia.

"Ecco a lei il primo premio, signor R. È un onore conoscerla".

"Ehi G., come stai, vecchio porco? Condoglianze per tua moglie".

Cose simili accadono anche tra gli assicuratori, i medici, i fruttivendoli. 

La verità è che ero un poetante invidioso a nove anni, e sono rimasto un poetante invidioso da adulto.

Mica desideravo essere un poeta. Speravo che qualcuno avrebbe creduto che lo fossi. Passare per poeta mi sembrava molto più divertente che esserlo davvero. Pubblicare quattro libri, fare schifo a tutti i critici col fiato di naftalina, tranne uno. Il più forte. Il Riina moribondo col culo rosso di baci. La Grande Anima disanimata, ammirata e odiata dagli epigoni mangiatori di caccole. Uno che da decenni aveva detto tutto il poco o tanto che aveva da dire e, un minuto prima di entrare nella bara, mi regalava dalle gengive vuote l'indulgenza del rincoglionito terminale scheletrico flatulento capoclan dei filologi:

"Cazzo se sei bravo. Siete bravi tutti". (Di più non potevo pretendere.) 

Sette parole prima dell'ultima sgommata nelle mutande. 

Era il mio sogno: contrabbandarmi come poeta e morire giovane. Per non aggiungere troppe scemenze a quelle che avevo già scritto. 

"Bisogna parlare nella propria opera e non della propria opera". L'ha detto qualcuno. Un morto.

Allora invidiavo solo i poeti morti. Lo giuro. Solo i morti e, tra i vivi, una poetessa cioè una poeta di quasi nove anni.

Del poema nelle cui nebbie mi ero avventurato, conservai le bozze per un po'. Mi ripromettevo di metterci mano "appena la gioia di scrivere fosse tornata a trovarmi". Poi buttai tutto: volevo averne un buon ricordo. Erano terribili, quei versi. Il greco... dovevo studiare il greco... Scrivere dei tossici, dei cani morenti nel mosto di catrame delle piazzole di sosta. Niente. Nemmeno Pasqua scrisse più nulla, ché voleva dedicarsi alla scienza. "Rubare il fuoco agli dèi", una frase che aveva letto nel numero otto di I miti del mondo a fumetti. L'ottavo fascicolo era incentrato su Prometeo. Senza di lui, sfrega e sfrega i falò te li sognavi. Prometeo, si sa, era un coglione. Ha ragione chi dice che si è puniti per i propri meriti. Nessun rapace scavatore avrebbe potuto curagli la steatosi. Miti.

La collana era il premio finale della gara che nessuno aveva vinto. Secondo la maestra, avevamo vinto entrambi; perciò l’aveva diviso in due parti uguali. Così diceva, anche se le parti tanto uguali non erano: i volumi erano quindici e a Pasqua ne era toccato uno in più, ed era il pezzo più tenero. La maestra sorrideva compiaciuta di un'equidistanza di facciata; l'incisivo d'oro macchiato di rossetto brillava per Pasqua e accecava me. Un sorriso benigno come un neo canceroso sui genitali. Il racconto dell'impresa balorda di Prometeo avrebbe acceso in Pasqua la scintilla delle scienze naturali, che le germinava dentro da un po', e che a me fino allora era sembrata innocua [2].

È la prima della classe in scienze, e quindi?

"Il vero poeta è sacrilego, e il poeta più sacrilego è lo scienziato" disse, liquidando la poesia lirica come un'esperienza tutto sommato dimenticabile.

La cucitura perfetta della frase con cui mi aveva atterrato.

Ero solo con la mia pochezza, nelle orecchie il bisbiglio di una parola mortifera:

 "Sacrilego... che cavolo vuol dire?".

 Non ebbi il coraggio di chiederglielo. 

"È un aggettivo: viene da sacrilegio: sai cos'è un sacrilegio?"

 Non lo sapevo, e in fondo non lo avrei saputo mai.

Come avrei potuto inventare parole nuove, senza il fantasma di un nemico a cui rubarle, io il Prometeo plagiario della fregnaccia? La gara si era conclusa impoeticamente, perché uno dei due aveva altro da fare e idee chiarissime sul domani. L'altro di idee ne aveva poche e troppe, come tutti gli acchiappamosche. Pasqua aveva deposto le armi con soave indifferenza. Con un altro stato d'animo, lo feci anch'io. Il nostro duello sarebbe morto di nostalgia in un ospizio dello spirito.

Del mio destino di poeta meglio non parlare. Per anni mi sono cercato parole nelle mutande, con un’ostinazione impermeabile al giudizio dell’evidenza. Quello che ho trovato si può immaginare. (Materiale buono per l'autobiografia dello sconforto.) Benedetto dall'addio dello sciacquone, il poema di Severino conserva la luce amorevole del crimine sconfessato.

 

 

 




[1] Vittorio Sereni, I versi (da Gli strumenti umani).

[2] Pasqua ha propagato il prometeico incendio: vive in Canada, dove insegna endocrinologia o qualcosa di simile all’Università del Québec. 

 

Quanto la premessa fosse superflua, è evidente nel corpo del pezzo; ma per me un piccolo anticipo di rancore era necessario. Non per introdurre il testo, ma per ribadire un paio di concetti, che si potevano anche considerare esplicitati nel racconto vero e proprio. Ho sbagliato, lo so. Una mia attenta lettrice mi aveva suggerito, per non dire imposto, di cancellare la premessa. Aveva ragione. Perciò l'ho lasciata lì dov'è, marcandola con un asterisco. Perché si capisse la sua inutilità, e pure la sua necessarietà.

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