Con gli animali mio padre
usava un metro formalmente rigoroso: solo la bellezza era cittadina in casa
sua. Un'eccezione era pensabile per i cani, in ossequio alle loro confidenze
senza segreti, all'allegria babbiona degli scodinzolamenti e delle orecchie
flosce, alle variazioni infinite della bastardaggine e degli incroci, che lo
divertivano molto. Specie se immaginava l'accoppiamento tra un molosso e un
levriero, o tra uno schnauzer e un pechinese, e gli splendidi mostri che ne
sarebbero venuti fuori. Altro discorso per gli animali destinati alla tavola,
che avevano il diritto di essere brutti: lumache, polli, tacchini, piccioni, capre,
maiali.
I gatti però dovevano essere
belli, come anche i pesci e gli uccelli da gabbia. Un gatto spelacchiato, un
cardellino deforme, un pesce con tre occhi, erano "cianfrusaglia" da
mandare al macero.
La regola, più solida di un
cubo di marmo, non disturbava lo stato di eccezione; la legge che decide tra
chi vive e chi muore, chi può restare e chi deve andarsene.
I gatti. Da una parte c'erano quelli
degni dell'Eden, per cui mio padre costruiva cucce imbottite di pelliccia di
coniglio, passerelle sinuose come labirinti, mini-ponti sospesi, riscaldati
dalle venature del legno di cui erano fatti. Il bricolage elevato ad arte
edificatoria.
Dall'altra, il gattame di cui
ci si poteva disfare senza rimpianti.
Una
lesione nel marmo
In casa avevamo due gatti,
ordinari in modo insopportabile. Voglio dire esteticamente ordinari: la femmina
grigia con le striature nere e un ovvio, tristissimo pelo raso che la faceva
somigliare a un gatto di casa. Non molto diverso da un gatto di strada. Il
maschio, di una ordinarietà che faccio fatica a descrivere: il biondo-arancio
del manto, le zampe anteriori spennellate a sbaffi di un colore un po’ più
marcato. L’espressività facciale del balordo miagolante. Se ne vedono tanti
spiaccicati sull'asfalto. Quella gromma di stoppa e viscere fatichi a credere
che sia stata viva.
Assunzione
dei semidei
Una gattaccia aveva figliato
nel cortile del condominio. Stracciona che viveva nel quartiere e la notte
piangeva le sue lagne ruffiane, era nera e storta, ma non banale; il pelo lungo
da siberiano lo potevi pettinare con le ciglia. Un mese prima di morire
distrattamente, come capita ai gatti, partorì quattro cosi bagnati, gattacci
potenziali anche loro. Invece no: sarebbero diventati bellissimi. La madre lo
sapeva. In vista del parto, si infilava di nascosto nello spiraglio della porta
basculante del garage, che mio padre lasciava apposta socchiusa. Morì pochi
giorni dopo aver compiuto l'opera che l'aveva sfinita. Nessuna causa si poteva
dire più degna di sacrificio. Erano bellissimi, i figli della gattaccia, e
tutti col pelo lungo e cotonato. La prima volta che li vidi, erano più che
adolescenti: l'unico maschio, un vichingo biondo e vaporoso in pace con
l'universo, che ammaliava con uno gnaulio baritonale; un'altra grigia scura,
con una stupefacente striscia bluastra che andava dalla schiena alla coda e terminava
in una frappa piumosa.
La terza era la versione
patinata della madre: nera anche lei, ma non così sfasciata. Anzi, sprigionava
dalla sonnolenza degli occhi una salute californiana. La quarta era la nemesi
del trio, e forse - il mio ricordo è nebbioso - non era la sorella, ma la
figlia di un lecito incesto del vichingo con una delle suddette. Dei fratelli
(o genitori) riproduceva nel manto i colori impastati in un tono più opaco. Era
piccola e cattiva, con l’unghia pronta a sciabolare ogni accenno di carezza. Vaiassa
rattrappita nel suo deserto, in un angolo fortificato del silenzio.
Mio padre in un primo momento pensò
di tenerli in garage; aveva costruito un camminamento-tunnel, che metteva in
comunicazione il soppalco col piano-terra. Un'opera di alta ingegneria,
immaginata per permettere ai gatti di muoversi comodamente tra i due livelli. Lasciarli
lì però era un peccato. Decise di promuoverli al piano di sopra. Dove abitavamo
noi e due ombre col pelo raso.
Per mio padre quell’idea non era
un gioco. Era un progetto a cui applicarsi con la fantasia. Quegli splendidi
animali meritavano una casa, con l'alito caldo dei termosifoni; le uscite
notturne sul balcone fiutando l’aroma della lettiera, protetta da una calotta
di compensato. Due pensionati in cambio di quattro splendori da lungomare. Sui
tappeti del corridoio i cuscinetti delle loro zampe avrebbero levitato
magneticamente.
La decisione era estetica e
sentimentale: quelle creature partecipavano della felinità in un modo
sconosciuto ai titolari del posto. Erano veri gatti, con i loro ron ron mignottari, gli agguati ai getti di
luce della torcia, le schiene inarcate per lo spavento. Erano pure affettuosi:
si ribaltavano a comando per farsi titillare i capezzoli. Inutile far notare a
mio padre che la nana del quartetto tanto affettuosa non era. Anche lei era
meglio di quei due assenteisti della vita.
Tutti e quattro dormivano il
giusto, erano gatti nel profondo ma non grassi (come quei due). Sonnecchiavano
ma non ronfavano (come quei due). Erano predatori nati (lasciamo perdere).
"Che gatti sono, questi?”
diceva accennando alle cariatidi.
“Mai un saluto, mai che ti
strofinino la gamba". (Detto in un soffio: a mio padre una strisciata di
pelo sulla riga dei pantaloni, dava fastidio solo a pensarci.)
"Hanno paura di tutto. Se
gli lanci un pezzo di ventresca, pensano che sia un aeroplano. Non hanno
ambizioni, non hanno voglia di vivere".
Mi lavorava il cervello con un
trapano:
"Questi li do via, quelli
li porto su". "Quanto sono tristi questi... quanto sono allegri
quelli...".
Io pensavo che lo sfratto dei
banali fosse ingiusto. Gli volevo quasi bene; il loro modo di nascondersi
somigliava al mio. Mio padre credeva di avere ragione, io ero convinto di non
avere torto. Trovammo un accordo: li avremmo tenuti tutti e sei. I quattro
semidei ascesero al paradiso che meritavano. Il duo non fu sfrattato, perché
godeva di un diritto acquisito. Un uomo d'ordine non poteva negarglielo.
Le quattro meraviglie,
sterilizzate e irripetibili, fecero appena in tempo a mostrare l'essenza del
loro privilegio: essere troppo belle per invecchiare. Nel giro di sette mesi,
morirono tutte di una malattia strana; dico strana
perché con un misterioso criterio selettivo aveva colpito solo loro, lasciando
intatta la coppia primigenia. Mio padre era sicuro che il virus mortale glielo
avessero trasmesso i due, che evidentemente ne erano immuni. Ma, sorprendendomi,
smise di trattarli male. Continuava a disprezzarli, eppure ne rispettava la resistenza
fisica, la voglia di stare al mondo per molestarlo con il loro disinteresse. Io
invece li guardavo con sospetto. La loro malinconia fasulla aveva troppa
dimestichezza con la morte degli altri.
Forse un pensiero li aveva
attraversati. Un sibilo del sangue nei lobi cerebrali: Qui siamo troppi…
L’intervento di una divinità
privata, invocata con uno sbadiglio, li aveva liberati dei quattro scassacazzi.
In uno sgabuzzino antartico o nel magma intestinale della terra, un Randagio
immortale lavorava per loro, l’intoccabile cianfrusaglia.
Prima
dei gatti
C'era stato l'interregno dei
pesci. La vita era nata lì, nel segreto dell’acqua, e la scala temporale andava
rispettata. Avevo quattordici anni, e l’unico animale che avessi avuto era
stato un granchio anacoreta catturato sulla spiaggia, nutrito a morte con ossi
di seppia. Chiesi a mio padre di comprarmi un pesce rosso. Un Carassius auratus, dicono gli scienziati. Mi accontentò: comprò il pesce e la
boccia e il mangime di scaglie puzzolenti. Poi si accorse che il Carassius era
esteticamente prevedibile. Portò a casa un orifiamma,
cioè la variazione dodecafonica del Carassius: un femminiello obeso, con uno
svolazzo caudale a veli di organza e, al posto degli occhi, due biglie protruse
incastonate nelle orbite. Lo mise nella boccia con lo smilzo, ma era perplesso.
L’orifiamma meritava una sistemazione adatta alla sua indiscutibile bellezza. A
me bello non sembrava; era più goffo che elegante: aveva lo sguardo malinconico
di un Peter Lorre in abito da sposa; si dimenava nell’acqua come in un vischio
vetroso. Sentivi la sua fatica nel portarsi appresso quei fianchi da matrona
spossata dalle gravidanze. Anche lo strascico di organza doveva pesargli parecchio.
Comunque, non poteva bastargli
una boccia di plastica. Mio padre comprò un acquario tropicale, insieme a una ventina
di pesci altrettanto tropicali. (I nomi non me li ricordo, dico che tipo di
pesci fossero, ma erano belli: blu, rosacei, gialli, viola, zebrati, trasparenti
come scagliozzi di radiografie con la lisca sempre accesa; filiformi,
pappagalleschi, semisferici. Il più bello di tutti ricordava la punta di una
freccia, coronata da un copricapo Sioux. Quando morì, il muso incastrato tra i
sassi del fondale, segnalava con precisione il punto dell’infarto. Seguite la freccia, seguite me diceva la
sua morte, così geometrica.)
L’orifiamma doveva traslocare
nell’acquario, dove avrebbe ricevuto la tessera di un circolo esclusivo.
Dopo essersi consultato con il
negoziante, che lo aveva rassicurato sull'adattabilità dell'orifiamma alla vita
sociale - e a temperature più calde -, mio padre lo tuffò nel piccolo oceano. Non
pareva starci male. Nuotava con la stessa goffaggine di prima, agitando la trippa
che voleva trascinarlo sul fondo. Nell'acquario era a suo agio, cioè a disagio,
come nella boccia. I suoi soci affusolati però non ne gradivano la compagnia, e
si misero a mozzicargli a turno lo strascico. Un giorno lo vedemmo galleggiare
sul pelo dell'acqua, disteso su un fianco; il soffio di bolle che saliva
dall'abisso schiaffeggiava il cadavere, facendolo ballonzolare con un’indolenza
nervosa, che suggeriva lo scorrere nel corpo di un residuo di tensione. Negli
occhi la fatica si scioglieva in un’espressione di sorpresa, ché lo sforzo più
grande il pesce lo aveva fatto trascinandosi nella vita. Sembrava contento di
esistere, ora che si specchiava nel vuoto.
Il
pensiero e la prassi
Nel periodo della sua
fissazione per gli uccelli, mio padre ha posseduto più di quaranta gabbie
popolate di canarini, verzellini, cardellini, fringuelli, passeri italiani,
passeri giapponesi. Capitava che gli uccelli nidificassero, e se ne nasceva uno
storto, mio padre applicava la sua teoria eugenetica. Lo vidi giustiziare un
uccelletto rachitico con una serie di ditate a scatto sulla testa. Tre, quattro
colpi netti con il dito medio sfregato sul pollice e sparato come un proiettile
tra gli occhi del neonato. Risparmiò un cardellino senza una zampa, ma solo
perché l'altra gliela aveva segata lui per sbaglio, stringendo troppo l'anello
di riconoscimento. Lì il senso di colpa prevalse sulla morale estetica, e la
bestiola poté vivere il resto della vita in convalescenza, dentro una gabbia di
lusso alta un metro e mezzo. Un superattico da scapolo che mio padre teneva
esposto in sala da pranzo, accanto alla porta-finestra. Nel giusto calibro di luce e d’ombra, il mutilato in gabbia era una
lezione muta di indifferenza al dolore.[1]
Si concedeva allo sguardo come
un rudere senza memoria, perché “la funzione più nobile degli oggetti è quella
di essere contemplati” [2]. Vederlo poggiato sulla
sbarra, in equilibrio disinvolto sulle zampe, una intera e l'altra dimezzata, metteva
tristezza; ma nello stesso tempo certificava che le imperfezioni sono falle in
uno scafo che non affonda. Nel mondo c'è sempre posto per l'errore divino. Mio
padre era il dio distratto che attuava il piano provvidenziale, pareggiando
errore tecnico ed errore di natura.
Un’altra
lesione
Un giorno portò a casa un
passero masticato e sputato dall’inferno. Doveva essere caduto da un albero.
Aveva le penne arruffate come dal soffio di un phon. Era schifosamente magro e
scemo dalla fame. Un bolo di respiri che si decomponeva davanti ai nostri occhi
ma non riusciva a morire.
Mio padre lo nutrì con una
pappa di proteine: uova, pan grattato e rigaglie di pollo sminuzzate. Impastò
tutto con la saliva e lo imbeccò con uno stecco. Gli somministrò la dieta
rinforzante per un paio di settimane. Il passero si riprese, diventò florido e
attraente. Viveva in una gabbia con le sbarre di bambù, e non se ne lamentava. Due
volte al giorno mio padre apriva la gabbia: il passero faceva un volo svogliato
nel tinello. Un’esibizione di stile. Quel sorso di libertà non lo interessava;
lo diceva chiaramente il suo corpo, più bello di ogni tristezza possibile. Scarabocchiava
tre giri in aria e si posava sul braccio di mio padre; saltellava dal polso su
fino all'omero e poi dall'omero giù verso il punto di partenza, pulendosi il
becco sul ciuffo di peli che spuntava dalla manica arrotolata. Mio padre gli
porgeva lo stecco del cibo, che il passero ingoiava gorgogliando di piacere. La
retorica sulla vitaccia degli uccelli in gabbia, era stata spazzata via
dall'allegria di un passero borghese e atarassico. Visse così con noi per nove
mesi. Troppi per immaginare un'esistenza da lavoratore, ma mio padre aveva
deciso: bisognava dargli la libertà che non aveva mai avuto né, probabilmente,
voluto. La messa in scena dei fatti è banale; la riluttanza dell'animale, la
mia (ero lo spettatore commosso, silenziato dalla quarta parete): mio padre che
infila la mano nella gabbia e afferra il passero: il suo grido è uno sgraffio
sul vinile; mio padre che lo prende, esce sul balcone e gli dà lo slancio; il
passero che frullando plana su una siepe e sparisce in una chiazza di
rosmarino.
Dissi a mio padre quello che
pensavo della libertà concessa dall'alto; lui mi zittì, mi chiamò Filosofo in pigiama. Tante volte mi
aveva apostrofato così, quando avevo marinato la scuola, per vendicarsi della
mia saccenteria.
“Eccolo, il filosofo in
pigiama, il professore che scappa per non farsi interrogare”.
Non potevo dargli torto, eppure
volevo dire la mia. Cercavamo il passero, gli occhi puntati sulla siepe. Dov’era?
Io insistevo che sarebbe morto. Il mondo non era un tinello.
"Parli ancora?" mi
disse rotolando sulle scale.
Perlustrò l'aiuola, una
striscia che orlava il cortile con la sua riga sghemba: niente tra le erbacce e
nelle zolle nude, niente tra le rose quasi secche e sui rami dei tre pini
piantati da poco. Il passero non c’era.
"Vedi, filosofo? È volato
via".
"Se lo sono mangiato i
gatti".
Mio padre appese la gabbia a
un chiodo ficcato nel muro di fronte al balcone, la porta spalancata per
accogliere il liberto.
"Se cambia idea, torna"
disse mio padre in un sospiro.
Era lui che aveva cambiato
idea. Forse a causa mia, del mio tono da benpensante; forse perché si era
pentito del suo gesto. Capita di pentirsi di una decisione giusta. La libertà
non è per tutti, pensavo; ma ebbi il pudore di non dirlo.
Chi
non vola cammina. Mia madre nutre quando c'è da nutrire, spenna quando c'è da
spennare
Nell'universo uccellesco di
mio padre, i piccioni avevano un ruolo a sé. C'erano i piccioni commestibili (e
quindi macellabili) e quelli da compagnia. Anche tra gli uomini si fanno
distinzioni: una persona può andarci a genio oppure no. Perché il discorso non
dovrebbe valere per i piccioni? Ma una persona, con cui non vuoi accompagnarti,
la eviti, non la mangi. Di solito. Lasciamo stare le credenze delle tribù
antropofaghe, per cui mangiare parti scelte del nemico ucciso, significa
impossessarsi del suo spirito. In quel caso si mangia uno di cui si ha stima;
in un certo senso gli si fa un favore.
Il piccione che entrò
sbatacchiando le ali sui muri del portico, smerdando il pavimento di terrore,
aveva un buco nella testa: un predatore lo aveva addentato, artigliato o non
so. Mio padre tentò di salvarlo, gli applicò del batadine sulla ferita, ma il buco era arrivato fin dentro il
cervello, e il piccione morì. Pochi giorni dopo, cercavo un ghiacciolo nel
freezer, aprii lo sportello e vidi il piccione che interrogava il niente nella
trasparenza di un body bag, il corpo nudo pronto per l'autopsia culinaria. Dato
che era morto di morte violenta e non di malattia, si poteva fargli il funerale
a tavola. Il pensiero di mio padre luccicava come l'acciaio del suo coltello.
Disossava il piccione e insieme a lui i miei dubbi.
Ne incontrò un altro, di
piccione, che aveva un'ala spezzata. Gliela rimise a posto, ma il piccione non poteva
volare meglio di una gallina nell'aia dei non-voli. Ogni tanto lo lanciava in
aria, come aveva fatto col passero renitente, ma in modo più deciso; l'animale
ondeggiava come una foglia fino al balcone del piano di sotto, scala B, e a mio
padre per recuperarlo toccava bussare alla porta dell’inquilino. I ripetuti
tentativi di decollo si spegnevano tutti sul suo balcone. Mio padre ogni volta si
scusava in una cantilena sempre più sfiduciata, che l’inquilino ascoltava prima
con calma, poi con composto imbarazzo, poi con ansia partecipe. Un giovedì
mattina la porta rimase chiusa.
“Non è in casa”, disse mio
padre.
Passarono due giorni: nessuno
apriva. Provò a telefonare: l’altro alzava la cornetta, ascoltava l’esordio di
mio padre e riattaccava, tagliando a metà il vocabolo infetto: “Mi perdoni,
dovrei recuperare il mio picc…”.
Si affidò alla grazia del
sinonimo: “Mi perdoni ancora, il mio colombo…”.
Riuscì a chiudere la parola,
ma la linea cadde uguale.
Se anche sgrullando le ali
l’animale avesse scavalcato la ringhiera, sarebbe cascato giù come una scarica
di guano. Ma non sembrava volerci provare. Se ne stava accovacciato nell’ombra delle
ortensie.
Dopo la quarantesima
scampanellata a vuoto, mio padre ebbe un’intuizione: disse a voce alta che, non
potendo chiamare i pompieri (mica era casa sua), l’unico modo per salvare il
piccione era piazzare una tavola di legno tra i due ballatoi, il suo e quello
del vicino, quattro metri sotto sull’altra scala.
Lo avrebbe abbordato gattonando
sull’asse inclinata come un corrimano.
“Non sono più tanto agile… Potrei
scivolare e andare giù. Anzi, è probabile che vada giù. Anzi, è sicuro. Pazienza…
Scendo in garage a prendere il materiale”.
L’inquilino aprì la porta. Sbraitò,
minacciò querele; ma era un brav’uomo e capì le ragioni di mio padre. Che
decise di tenersi il piccione.
“Non si vola a dispetto del
cielo”.
Gli diede pure un nome: Geo
Chávez. Non glielo cambiò neanche dopo aver scoperto che era femmina. Io, puntiglioso
solo nelle questioni minime, insistevo perché lo modificasse, lasciando intatto
il numero delle sillabe, in modo che il piccione non fosse disorientato dall’estensione
sonora del richiamo. Ma, volto al femminile, avrebbe avuto una strana assonanza
col nome della dirimpettaia cubana, vedova da quindici anni: sentendosi
chiamare venti volte al giorno dall’appartamento di fronte, avrebbe potuto dubitare
della limpida cortesia di mio padre, quando le sorrideva sulle scale la mattina.
Che almeno gliene aggiungesse
uno con la desinenza in a, perché non
si pensasse che non capivamo niente di piccioni, del loro sesso, del loro
sguardo femminino e mascolino sul mondo. Appunto: femminino e mascolino, non femminino o mascolino. Cosa poteva fregare al
piccione di una a al posto della o? Non ne sapevo abbastanza. Mio padre
da ragazzo aveva fatto il pastore e ne aveva visti, di montoni innamorati per
amore, non per riprodursi: ogni tanto si innamoravano anche delle femmine.
Continuavo ad aggrapparmi alla spina del pregiudizio; io che pretendevo di dare
lezioni dalla cattedra che non avrei avuto mai.
Mio padre trattava il piccione
come un cane pennuto. La notte lo alloggiava in garage (vuoto di gatti), ma il
giorno lo lasciava zampettare in cortile; pollo-cane che non superava il recinto
della sua condizione di viziatissimo aviatore in congedo. Ci affacciavamo al
balcone e lo contemplavamo mentre percorreva avanti e indietro il cortile,
misurandolo col regolo dell’andatura caracollante. Disegnava ghirigori
sull'asfalto, la testa uno stantuffo che dava il ritmo ai passi. Mio padre
sporgendosi dalla ringhiera lo chiamava gridando:
“Geo Chávez! Geo Cháveeez!”.
E lì io scivolavo nel soggiorno perché nessuno mi vedesse.
Quando mio padre lo teneva in
braccio, il piccione era aggressivo come uno di quei cricchianti cani
miniaturizzati da signora. Se solo pensavi di accarezzarlo, ti piantava una
beccata sulla mano. Aveva un carisma riottoso che lo distingueva dai suoi
simili: anche per questo era il piccione di mio padre. Le sue pupille emanavano
un brillio lenticolare; parevano disegnate su tondi di vetro vorticanti; un
effetto comune nelle animazioni delle ipnosi cinematografiche. Se fosse stato un
minimo gentile, lo avrei guardato con simpatia, perché era un uccello dimezzato
e lo sapeva.
Un giorno, mentre Geo Chávez
faceva la solita passeggiata in cortile, l’inquilino del piano di sopra, in
retromarcia con la sua 126, gli restituì la facoltà del volo. L’ultimo. Non
l’aveva fatto apposta, era evidente: che interesse avrebbe avuto un brigadiere in
pensione a uccidere un piccione terraiolo, pericoloso solo per le mani che
cercassero di accarezzarlo? Il confronto tra mio padre e l’uccisore fu vivace,
ma non superò i confini della correttezza. L’inquilino si giustificava: “Una
distrazione…”.
Mio padre sosteneva un’altra
tesi: il piccione era antipatico al manovratore come agli altri inquilini, per
il suo carattere difficile, certo; ma anche perché la sua frenesia sfinterica si
concentrava nell’area del parcheggio; non risparmiava nemmeno i cofani delle utilitarie,
che raggiungeva con un salto di cui non lo avresti detto capace. E poi i
richiami, che mio padre gli lanciava nella controra, disturbavano più di una
pennica pomeridiana. L’incidente sarebbe stato applaudito nel cuore da tutto il
caseggiato. Forse da tutto il quartiere. Mio padre e l’inquilino discussero per
venti minuti; poi si strinsero la mano. L’inquilino si offrì di aiutarlo nella
sepoltura, ma mio padre preferì fare da solo. Le sue argomentazioni non lo
avevano convinto.
Dopo
il lutto
Non distinse più tra piccioni e colombi. Avrebbe obbedito alla natura naturata. Comprò due piccioni per metterli all'ingrasso. Sebbene i segnali fossero chiari, non avevo capito subito le sue intenzioni. Dopo un paio di settimane, i modi della reclusione dei pennuti cominciarono a insospettirmi: il fatto che non avessero un nome il primo giorno e che continuassero a non averlo nei giorni successivi; che mio padre non li vezzeggiasse mai a parole e a gesti; che li nutrisse senza toglierli dalla gabbia, angustissima, aperta solo nella grata per farli respirare. Una domenica, uscivo dal bagno in accappatoio, e vidi mia madre che li spennava su una spianatoia. Li aveva uccisi lei. Lei che alle nostre dispute non aveva preso mai parte. Li aveva scannati prima di mezzogiorno, per escludermi dal rito. Era stata brava, come tante altre volte con le galline che mio padre le aveva portato calde di viscere e inconsapevoli. Mentre ero immerso nella vasca fino alle orecchie, e ascoltavo i suoni dell’oltre-mondo: avevo sentito gorgoglii metallici: bastimenti in partenza per l’America, parole sussurrate tra le lenzuola, uno sparo con il silenziatore, il tonfo di un corpo caduto da un grattacielo a Kuala Lumpur; ma nessun lamento dei piccioni. Morti senza nome. Non ho mai saputo se si trattasse
[1] È una
cazzata, lo so, ma colora bene il discorso.
[2]
Quest’altra, Miguel de Unamuno la fa dire al protagonista di Niebla.
[1] È una
cazzata, lo so, ma colora bene il discorso.
[2] Quest’altra, Miguel de Unamuno la fa dire al protagonista di Niebla.
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