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Una piccola falla

 


Con gli animali mio padre usava un metro formalmente rigoroso: solo la bellezza era cittadina in casa sua. Un'eccezione era pensabile per i cani, in ossequio alle loro confidenze senza segreti, all'allegria babbiona degli scodinzolamenti e delle orecchie flosce, alle variazioni infinite della bastardaggine e degli incroci, che lo divertivano molto. Specie se immaginava l'accoppiamento tra un molosso e un levriero, o tra uno schnauzer e un pechinese, e gli splendidi mostri che ne sarebbero venuti fuori. Altro discorso per gli animali destinati alla tavola, che avevano il diritto di essere brutti: lumache, polli, tacchini, piccioni, capre, maiali.

I gatti però dovevano essere belli, come anche i pesci e gli uccelli da gabbia. Un gatto spelacchiato, un cardellino deforme, un pesce con tre occhi, erano "cianfrusaglia" da mandare al macero.

La regola, più solida di un cubo di marmo, non disturbava lo stato di eccezione; la legge che decide tra chi vive e chi muore, chi può restare e chi deve andarsene.

I gatti. Da una parte c'erano quelli degni dell'Eden, per cui mio padre costruiva cucce imbottite di pelliccia di coniglio, passerelle sinuose come labirinti, mini-ponti sospesi, riscaldati dalle venature del legno di cui erano fatti. Il bricolage elevato ad arte edificatoria.

Dall'altra, il gattame di cui ci si poteva disfare senza rimpianti.

 

Una lesione nel marmo

 

In casa avevamo due gatti, ordinari in modo insopportabile. Voglio dire esteticamente ordinari: la femmina grigia con le striature nere e un ovvio, tristissimo pelo raso che la faceva somigliare a un gatto di casa. Non molto diverso da un gatto di strada. Il maschio, di una ordinarietà che faccio fatica a descrivere: il biondo-arancio del manto, le zampe anteriori spennellate a sbaffi di un colore un po’ più marcato. L’espressività facciale del balordo miagolante. Se ne vedono tanti spiaccicati sull'asfalto. Quella gromma di stoppa e viscere fatichi a credere che sia stata viva.   

 

Assunzione dei semidei

 

Una gattaccia aveva figliato nel cortile del condominio. Stracciona che viveva nel quartiere e la notte piangeva le sue lagne ruffiane, era nera e storta, ma non banale; il pelo lungo da siberiano lo potevi pettinare con le ciglia. Un mese prima di morire distrattamente, come capita ai gatti, partorì quattro cosi bagnati, gattacci potenziali anche loro. Invece no: sarebbero diventati bellissimi. La madre lo sapeva. In vista del parto, si infilava di nascosto nello spiraglio della porta basculante del garage, che mio padre lasciava apposta socchiusa. Morì pochi giorni dopo aver compiuto l'opera che l'aveva sfinita. Nessuna causa si poteva dire più degna di sacrificio. Erano bellissimi, i figli della gattaccia, e tutti col pelo lungo e cotonato. La prima volta che li vidi, erano più che adolescenti: l'unico maschio, un vichingo biondo e vaporoso in pace con l'universo, che ammaliava con uno gnaulio baritonale; un'altra grigia scura, con una stupefacente striscia bluastra che andava dalla schiena alla coda e terminava in una frappa piumosa.

La terza era la versione patinata della madre: nera anche lei, ma non così sfasciata. Anzi, sprigionava dalla sonnolenza degli occhi una salute californiana. La quarta era la nemesi del trio, e forse - il mio ricordo è nebbioso - non era la sorella, ma la figlia di un lecito incesto del vichingo con una delle suddette. Dei fratelli (o genitori) riproduceva nel manto i colori impastati in un tono più opaco. Era piccola e cattiva, con l’unghia pronta a sciabolare ogni accenno di carezza. Vaiassa rattrappita nel suo deserto, in un angolo fortificato del silenzio.

Mio padre in un primo momento pensò di tenerli in garage; aveva costruito un camminamento-tunnel, che metteva in comunicazione il soppalco col piano-terra. Un'opera di alta ingegneria, immaginata per permettere ai gatti di muoversi comodamente tra i due livelli. Lasciarli lì però era un peccato. Decise di promuoverli al piano di sopra. Dove abitavamo noi e due ombre col pelo raso.

Per mio padre quell’idea non era un gioco. Era un progetto a cui applicarsi con la fantasia. Quegli splendidi animali meritavano una casa, con l'alito caldo dei termosifoni; le uscite notturne sul balcone fiutando l’aroma della lettiera, protetta da una calotta di compensato. Due pensionati in cambio di quattro splendori da lungomare. Sui tappeti del corridoio i cuscinetti delle loro zampe avrebbero levitato magneticamente.

La decisione era estetica e sentimentale: quelle creature partecipavano della felinità in un modo sconosciuto ai titolari del posto. Erano veri gatti, con i loro ron ron mignottari, gli agguati ai getti di luce della torcia, le schiene inarcate per lo spavento. Erano pure affettuosi: si ribaltavano a comando per farsi titillare i capezzoli. Inutile far notare a mio padre che la nana del quartetto tanto affettuosa non era. Anche lei era meglio di quei due assenteisti della vita.

Tutti e quattro dormivano il giusto, erano gatti nel profondo ma non grassi (come quei due). Sonnecchiavano ma non ronfavano (come quei due). Erano predatori nati (lasciamo perdere).

"Che gatti sono, questi?” diceva accennando alle cariatidi.

“Mai un saluto, mai che ti strofinino la gamba". (Detto in un soffio: a mio padre una strisciata di pelo sulla riga dei pantaloni, dava fastidio solo a pensarci.)

"Hanno paura di tutto. Se gli lanci un pezzo di ventresca, pensano che sia un aeroplano. Non hanno ambizioni, non hanno voglia di vivere".

Mi lavorava il cervello con un trapano:

"Questi li do via, quelli li porto su". "Quanto sono tristi questi... quanto sono allegri quelli...".

Io pensavo che lo sfratto dei banali fosse ingiusto. Gli volevo quasi bene; il loro modo di nascondersi somigliava al mio. Mio padre credeva di avere ragione, io ero convinto di non avere torto. Trovammo un accordo: li avremmo tenuti tutti e sei. I quattro semidei ascesero al paradiso che meritavano. Il duo non fu sfrattato, perché godeva di un diritto acquisito. Un uomo d'ordine non poteva negarglielo.

Le quattro meraviglie, sterilizzate e irripetibili, fecero appena in tempo a mostrare l'essenza del loro privilegio: essere troppo belle per invecchiare. Nel giro di sette mesi, morirono tutte di una malattia strana; dico strana perché con un misterioso criterio selettivo aveva colpito solo loro, lasciando intatta la coppia primigenia. Mio padre era sicuro che il virus mortale glielo avessero trasmesso i due, che evidentemente ne erano immuni. Ma, sorprendendomi, smise di trattarli male. Continuava a disprezzarli, eppure ne rispettava la resistenza fisica, la voglia di stare al mondo per molestarlo con il loro disinteresse. Io invece li guardavo con sospetto. La loro malinconia fasulla aveva troppa dimestichezza con la morte degli altri.

Forse un pensiero li aveva attraversati. Un sibilo del sangue nei lobi cerebrali: Qui siamo troppi

L’intervento di una divinità privata, invocata con uno sbadiglio, li aveva liberati dei quattro scassacazzi. In uno sgabuzzino antartico o nel magma intestinale della terra, un Randagio immortale lavorava per loro, l’intoccabile cianfrusaglia.

 

Prima dei gatti

 

C'era stato l'interregno dei pesci. La vita era nata lì, nel segreto dell’acqua, e la scala temporale andava rispettata. Avevo quattordici anni, e l’unico animale che avessi avuto era stato un granchio anacoreta catturato sulla spiaggia, nutrito a morte con ossi di seppia. Chiesi a mio padre di comprarmi un pesce rosso. Un Carassius auratus, dicono gli scienziati. Mi accontentò: comprò il pesce e la boccia e il mangime di scaglie puzzolenti. Poi si accorse che il Carassius era esteticamente prevedibile. Portò a casa un orifiamma, cioè la variazione dodecafonica del Carassius: un femminiello obeso, con uno svolazzo caudale a veli di organza e, al posto degli occhi, due biglie protruse incastonate nelle orbite. Lo mise nella boccia con lo smilzo, ma era perplesso. L’orifiamma meritava una sistemazione adatta alla sua indiscutibile bellezza. A me bello non sembrava; era più goffo che elegante: aveva lo sguardo malinconico di un Peter Lorre in abito da sposa; si dimenava nell’acqua come in un vischio vetroso. Sentivi la sua fatica nel portarsi appresso quei fianchi da matrona spossata dalle gravidanze. Anche lo strascico di organza doveva pesargli parecchio.

Comunque, non poteva bastargli una boccia di plastica. Mio padre comprò un acquario tropicale, insieme a una ventina di pesci altrettanto tropicali. (I nomi non me li ricordo, dico che tipo di pesci fossero, ma erano belli: blu, rosacei, gialli, viola, zebrati, trasparenti come scagliozzi di radiografie con la lisca sempre accesa; filiformi, pappagalleschi, semisferici. Il più bello di tutti ricordava la punta di una freccia, coronata da un copricapo Sioux. Quando morì, il muso incastrato tra i sassi del fondale, segnalava con precisione il punto dell’infarto. Seguite la freccia, seguite me diceva la sua morte, così geometrica.)

L’orifiamma doveva traslocare nell’acquario, dove avrebbe ricevuto la tessera di un circolo esclusivo.

Dopo essersi consultato con il negoziante, che lo aveva rassicurato sull'adattabilità dell'orifiamma alla vita sociale - e a temperature più calde -, mio padre lo tuffò nel piccolo oceano. Non pareva starci male. Nuotava con la stessa goffaggine di prima, agitando la trippa che voleva trascinarlo sul fondo. Nell'acquario era a suo agio, cioè a disagio, come nella boccia. I suoi soci affusolati però non ne gradivano la compagnia, e si misero a mozzicargli a turno lo strascico. Un giorno lo vedemmo galleggiare sul pelo dell'acqua, disteso su un fianco; il soffio di bolle che saliva dall'abisso schiaffeggiava il cadavere, facendolo ballonzolare con un’indolenza nervosa, che suggeriva lo scorrere nel corpo di un residuo di tensione. Negli occhi la fatica si scioglieva in un’espressione di sorpresa, ché lo sforzo più grande il pesce lo aveva fatto trascinandosi nella vita. Sembrava contento di esistere, ora che si specchiava nel vuoto.

 

Il pensiero e la prassi

 

Nel periodo della sua fissazione per gli uccelli, mio padre ha posseduto più di quaranta gabbie popolate di canarini, verzellini, cardellini, fringuelli, passeri italiani, passeri giapponesi. Capitava che gli uccelli nidificassero, e se ne nasceva uno storto, mio padre applicava la sua teoria eugenetica. Lo vidi giustiziare un uccelletto rachitico con una serie di ditate a scatto sulla testa. Tre, quattro colpi netti con il dito medio sfregato sul pollice e sparato come un proiettile tra gli occhi del neonato. Risparmiò un cardellino senza una zampa, ma solo perché l'altra gliela aveva segata lui per sbaglio, stringendo troppo l'anello di riconoscimento. Lì il senso di colpa prevalse sulla morale estetica, e la bestiola poté vivere il resto della vita in convalescenza, dentro una gabbia di lusso alta un metro e mezzo. Un superattico da scapolo che mio padre teneva esposto in sala da pranzo, accanto alla porta-finestra. Nel giusto calibro di luce e d’ombra, il mutilato in gabbia era una lezione muta di indifferenza al dolore.[1]

Si concedeva allo sguardo come un rudere senza memoria, perché “la funzione più nobile degli oggetti è quella di essere contemplati” [2]. Vederlo poggiato sulla sbarra, in equilibrio disinvolto sulle zampe, una intera e l'altra dimezzata, metteva tristezza; ma nello stesso tempo certificava che le imperfezioni sono falle in uno scafo che non affonda. Nel mondo c'è sempre posto per l'errore divino. Mio padre era il dio distratto che attuava il piano provvidenziale, pareggiando errore tecnico ed errore di natura.

 

Un’altra lesione

 

Un giorno portò a casa un passero masticato e sputato dall’inferno. Doveva essere caduto da un albero. Aveva le penne arruffate come dal soffio di un phon. Era schifosamente magro e scemo dalla fame. Un bolo di respiri che si decomponeva davanti ai nostri occhi ma non riusciva a morire.

Mio padre lo nutrì con una pappa di proteine: uova, pan grattato e rigaglie di pollo sminuzzate. Impastò tutto con la saliva e lo imbeccò con uno stecco. Gli somministrò la dieta rinforzante per un paio di settimane. Il passero si riprese, diventò florido e attraente. Viveva in una gabbia con le sbarre di bambù, e non se ne lamentava. Due volte al giorno mio padre apriva la gabbia: il passero faceva un volo svogliato nel tinello. Un’esibizione di stile. Quel sorso di libertà non lo interessava; lo diceva chiaramente il suo corpo, più bello di ogni tristezza possibile. Scarabocchiava tre giri in aria e si posava sul braccio di mio padre; saltellava dal polso su fino all'omero e poi dall'omero giù verso il punto di partenza, pulendosi il becco sul ciuffo di peli che spuntava dalla manica arrotolata. Mio padre gli porgeva lo stecco del cibo, che il passero ingoiava gorgogliando di piacere. La retorica sulla vitaccia degli uccelli in gabbia, era stata spazzata via dall'allegria di un passero borghese e atarassico. Visse così con noi per nove mesi. Troppi per immaginare un'esistenza da lavoratore, ma mio padre aveva deciso: bisognava dargli la libertà che non aveva mai avuto né, probabilmente, voluto. La messa in scena dei fatti è banale; la riluttanza dell'animale, la mia (ero lo spettatore commosso, silenziato dalla quarta parete): mio padre che infila la mano nella gabbia e afferra il passero: il suo grido è uno sgraffio sul vinile; mio padre che lo prende, esce sul balcone e gli dà lo slancio; il passero che frullando plana su una siepe e sparisce in una chiazza di rosmarino.

Dissi a mio padre quello che pensavo della libertà concessa dall'alto; lui mi zittì, mi chiamò Filosofo in pigiama. Tante volte mi aveva apostrofato così, quando avevo marinato la scuola, per vendicarsi della mia saccenteria. 

“Eccolo, il filosofo in pigiama, il professore che scappa per non farsi interrogare”.

Non potevo dargli torto, eppure volevo dire la mia. Cercavamo il passero, gli occhi puntati sulla siepe. Dov’era? Io insistevo che sarebbe morto. Il mondo non era un tinello.

"Parli ancora?" mi disse rotolando sulle scale.

Perlustrò l'aiuola, una striscia che orlava il cortile con la sua riga sghemba: niente tra le erbacce e nelle zolle nude, niente tra le rose quasi secche e sui rami dei tre pini piantati da poco. Il passero non c’era.

"Vedi, filosofo? È volato via".

"Se lo sono mangiato i gatti".

Mio padre appese la gabbia a un chiodo ficcato nel muro di fronte al balcone, la porta spalancata per accogliere il liberto.

"Se cambia idea, torna" disse mio padre in un sospiro.

Era lui che aveva cambiato idea. Forse a causa mia, del mio tono da benpensante; forse perché si era pentito del suo gesto. Capita di pentirsi di una decisione giusta. La libertà non è per tutti, pensavo; ma ebbi il pudore di non dirlo.

 

Chi non vola cammina. Mia madre nutre quando c'è da nutrire, spenna quando c'è da spennare

 

Nell'universo uccellesco di mio padre, i piccioni avevano un ruolo a sé. C'erano i piccioni commestibili (e quindi macellabili) e quelli da compagnia. Anche tra gli uomini si fanno distinzioni: una persona può andarci a genio oppure no. Perché il discorso non dovrebbe valere per i piccioni? Ma una persona, con cui non vuoi accompagnarti, la eviti, non la mangi. Di solito. Lasciamo stare le credenze delle tribù antropofaghe, per cui mangiare parti scelte del nemico ucciso, significa impossessarsi del suo spirito. In quel caso si mangia uno di cui si ha stima; in un certo senso gli si fa un favore.

Il piccione che entrò sbatacchiando le ali sui muri del portico, smerdando il pavimento di terrore, aveva un buco nella testa: un predatore lo aveva addentato, artigliato o non so. Mio padre tentò di salvarlo, gli applicò del batadine sulla ferita, ma il buco era arrivato fin dentro il cervello, e il piccione morì. Pochi giorni dopo, cercavo un ghiacciolo nel freezer, aprii lo sportello e vidi il piccione che interrogava il niente nella trasparenza di un body bag, il corpo nudo pronto per l'autopsia culinaria. Dato che era morto di morte violenta e non di malattia, si poteva fargli il funerale a tavola. Il pensiero di mio padre luccicava come l'acciaio del suo coltello. Disossava il piccione e insieme a lui i miei dubbi.

Ne incontrò un altro, di piccione, che aveva un'ala spezzata. Gliela rimise a posto, ma il piccione non poteva volare meglio di una gallina nell'aia dei non-voli. Ogni tanto lo lanciava in aria, come aveva fatto col passero renitente, ma in modo più deciso; l'animale ondeggiava come una foglia fino al balcone del piano di sotto, scala B, e a mio padre per recuperarlo toccava bussare alla porta dell’inquilino. I ripetuti tentativi di decollo si spegnevano tutti sul suo balcone. Mio padre ogni volta si scusava in una cantilena sempre più sfiduciata, che l’inquilino ascoltava prima con calma, poi con composto imbarazzo, poi con ansia partecipe. Un giovedì mattina la porta rimase chiusa.

“Non è in casa”, disse mio padre.

Passarono due giorni: nessuno apriva. Provò a telefonare: l’altro alzava la cornetta, ascoltava l’esordio di mio padre e riattaccava, tagliando a metà il vocabolo infetto: “Mi perdoni, dovrei recuperare il mio picc…”.

Si affidò alla grazia del sinonimo: “Mi perdoni ancora, il mio colombo…”.

Riuscì a chiudere la parola, ma la linea cadde uguale.

Se anche sgrullando le ali l’animale avesse scavalcato la ringhiera, sarebbe cascato giù come una scarica di guano. Ma non sembrava volerci provare. Se ne stava accovacciato nell’ombra delle ortensie.

Dopo la quarantesima scampanellata a vuoto, mio padre ebbe un’intuizione: disse a voce alta che, non potendo chiamare i pompieri (mica era casa sua), l’unico modo per salvare il piccione era piazzare una tavola di legno tra i due ballatoi, il suo e quello del vicino, quattro metri sotto sull’altra scala.

Lo avrebbe abbordato gattonando sull’asse inclinata come un corrimano.

“Non sono più tanto agile… Potrei scivolare e andare giù. Anzi, è probabile che vada giù. Anzi, è sicuro. Pazienza… Scendo in garage a prendere il materiale”.  

L’inquilino aprì la porta. Sbraitò, minacciò querele; ma era un brav’uomo e capì le ragioni di mio padre. Che decise di tenersi il piccione.

“Non si vola a dispetto del cielo”.

Gli diede pure un nome: Geo Chávez. Non glielo cambiò neanche dopo aver scoperto che era femmina. Io, puntiglioso solo nelle questioni minime, insistevo perché lo modificasse, lasciando intatto il numero delle sillabe, in modo che il piccione non fosse disorientato dall’estensione sonora del richiamo. Ma, volto al femminile, avrebbe avuto una strana assonanza col nome della dirimpettaia cubana, vedova da quindici anni: sentendosi chiamare venti volte al giorno dall’appartamento di fronte, avrebbe potuto dubitare della limpida cortesia di mio padre, quando le sorrideva sulle scale la mattina.

Che almeno gliene aggiungesse uno con la desinenza in a, perché non si pensasse che non capivamo niente di piccioni, del loro sesso, del loro sguardo femminino e mascolino sul mondo. Appunto: femminino e mascolino, non femminino o mascolino. Cosa poteva fregare al piccione di una a al posto della o? Non ne sapevo abbastanza. Mio padre da ragazzo aveva fatto il pastore e ne aveva visti, di montoni innamorati per amore, non per riprodursi: ogni tanto si innamoravano anche delle femmine. Continuavo ad aggrapparmi alla spina del pregiudizio; io che pretendevo di dare lezioni dalla cattedra che non avrei avuto mai.

Mio padre trattava il piccione come un cane pennuto. La notte lo alloggiava in garage (vuoto di gatti), ma il giorno lo lasciava zampettare in cortile; pollo-cane che non superava il recinto della sua condizione di viziatissimo aviatore in congedo. Ci affacciavamo al balcone e lo contemplavamo mentre percorreva avanti e indietro il cortile, misurandolo col regolo dell’andatura caracollante. Disegnava ghirigori sull'asfalto, la testa uno stantuffo che dava il ritmo ai passi. Mio padre sporgendosi dalla ringhiera lo chiamava gridando:

“Geo Chávez! Geo Cháveeez!”.

E lì io scivolavo nel soggiorno perché nessuno mi vedesse.

Quando mio padre lo teneva in braccio, il piccione era aggressivo come uno di quei cricchianti cani miniaturizzati da signora. Se solo pensavi di accarezzarlo, ti piantava una beccata sulla mano. Aveva un carisma riottoso che lo distingueva dai suoi simili: anche per questo era il piccione di mio padre. Le sue pupille emanavano un brillio lenticolare; parevano disegnate su tondi di vetro vorticanti; un effetto comune nelle animazioni delle ipnosi cinematografiche. Se fosse stato un minimo gentile, lo avrei guardato con simpatia, perché era un uccello dimezzato e lo sapeva.

Un giorno, mentre Geo Chávez faceva la solita passeggiata in cortile, l’inquilino del piano di sopra, in retromarcia con la sua 126, gli restituì la facoltà del volo. L’ultimo. Non l’aveva fatto apposta, era evidente: che interesse avrebbe avuto un brigadiere in pensione a uccidere un piccione terraiolo, pericoloso solo per le mani che cercassero di accarezzarlo? Il confronto tra mio padre e l’uccisore fu vivace, ma non superò i confini della correttezza. L’inquilino si giustificava: “Una distrazione…”.

Mio padre sosteneva un’altra tesi: il piccione era antipatico al manovratore come agli altri inquilini, per il suo carattere difficile, certo; ma anche perché la sua frenesia sfinterica si concentrava nell’area del parcheggio; non risparmiava nemmeno i cofani delle utilitarie, che raggiungeva con un salto di cui non lo avresti detto capace. E poi i richiami, che mio padre gli lanciava nella controra, disturbavano più di una pennica pomeridiana. L’incidente sarebbe stato applaudito nel cuore da tutto il caseggiato. Forse da tutto il quartiere. Mio padre e l’inquilino discussero per venti minuti; poi si strinsero la mano. L’inquilino si offrì di aiutarlo nella sepoltura, ma mio padre preferì fare da solo. Le sue argomentazioni non lo avevano convinto.    

 

Dopo il lutto

 

Non distinse più tra piccioni e colombi. Avrebbe obbedito alla natura naturata. Comprò due piccioni per metterli all'ingrasso. Sebbene i segnali fossero chiari, non avevo capito subito le sue intenzioni. Dopo un paio di settimane, i modi della reclusione dei pennuti cominciarono a insospettirmi: il fatto che non avessero un nome il primo giorno e che continuassero a non averlo nei giorni successivi; che mio padre non li vezzeggiasse mai a parole e a gesti; che li nutrisse senza toglierli dalla gabbia, angustissima, aperta solo nella grata per farli respirare. Una domenica, uscivo dal bagno in accappatoio, e vidi mia madre che li spennava su una spianatoia. Li aveva uccisi lei. Lei che alle nostre dispute non aveva preso mai parte. Li aveva scannati prima di mezzogiorno, per escludermi dal rito. Era stata brava, come tante altre volte con le galline che mio padre le aveva portato calde di viscere e inconsapevoli. Mentre ero immerso nella vasca fino alle orecchie, e ascoltavo i suoni dell’oltre-mondo: avevo sentito gorgoglii metallici: bastimenti in partenza per l’America, parole sussurrate tra le lenzuola, uno sparo con il silenziatore, il tonfo di un corpo caduto da un grattacielo a Kuala Lumpur; ma nessun lamento dei piccioni. Morti senza nome. Non ho mai saputo se si trattasse



[1] È una cazzata, lo so, ma colora bene il discorso.

[2] Quest’altra, Miguel de Unamuno la fa dire al protagonista di Niebla.


[1] È una cazzata, lo so, ma colora bene il discorso.

[2] Quest’altra, Miguel de Unamuno la fa dire al protagonista di Niebla. 



[1] È una cazzata, lo so, ma colora bene il discorso.

[2] Quest’altra, Miguel de Unamuno la fa dire al protagonista di Niebla.

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