Il loro mestiere è un
bersaglio comodo, per chi si suda lo stipendio e per chi non se lo suda.
“Guadagnati il pane, bastardo!” è il pensiero meno velenoso che esca di bocca
agli intransigenti di ogni marca, lavoratori tristi e allegri sfaccendati.
Capita la stessa cosa con i preti che toccano le donne: fanno schifo anche ai sessuomani
che non dicono messa, sposatissimi e dal sonno profondo al riparo dai rimorsi. Una
verità è innegabile: il lavoro dell'accattone richiede disciplina. Ne ho visto
uno che a dicembre indossava un vestito di carta azzurra. Era l'imitazione
abbastanza precisa di un completo, con il bavero della giacca smangiato sugli
orli, le asole tagliate col temperino e i bottoni di stagnola tenuti insieme da
fili di ferro. I pantaloni avevano una pieghetta sulle caviglie. Dalla tasca
destra della giacca spuntava un'edizione tascabile di La via del samurai. Non si poteva dire un vero mendicante, perché
non sembrava chiedere soldi o altro. Sonnecchiava seduto sui basoli di un
marciapiede, appoggiato con la schiena alla facciata di un palazzo di fine
Ottocento. La sede delle Assicurazioni
Generali. Ne ho visto un altro che chiedeva l’elemosina sotto la pioggia,
da cui si riparava – non era scemo – con un ombrello sforacchiato. La sua non
era un'immagine pietosa, ma quella di chi si applicava al lavoro con composta
efficienza, senza enfasi. A Lecce, davanti all'ingresso di un supermercato, un
africano di mezza età vendeva accendini a mille lire. Non li comprava nessuno,
ma lui senza scoraggiarsi ripeteva la giaculatoria: "Millleliremilleliremillelire".
Lo avresti preso a calci per farlo smettere, o gli avresti comprato tutti gli
accendini. Ma così gli avresti tolto il lavoro, perché pareva dominare quello
spazio rumoroso solo per la gioia di dare fastidio al mondo (o almeno ai
clienti del supermercato). Alla stazione di Foggia potevi incontrare un vecchio
calvo con le tasche gonfie non si sa di che cosa. Fazzoletti sporchi?
Caldarroste? I maligni, prevedibili, parlavano di banconote arrotolate. I più
delicati confermavano la storia delle banconote, precisando però che erano
fuori corso da trent'anni; cartaccia residua di un'eredità che aveva ricevuto
troppo tardi, perché il parente milionario aveva sotterrato il denaro nell'orto.
Il vecchio vagava per la stazione chiedendo soldi a tutti. Ovvio, un movimento
naturale del mestiere. Era il climax che stupiva. Di solito, in una qualsiasi
trattativa le richieste decrescono a ogni no: si chiede mille per arrivare a
dieci. "Hai mille lire? Neanche cinquecento? Neanche cento, cinquanta,
venti, dieci?". Lui faceva il contrario: partiva da dieci per arrivare a
mille. La tecnica insolita disorientava l'interlocutore che, se poteva negare
di avere spiccioli in tasca, non poteva negare di avere almeno una banconota
nel portafogli: come avrebbe comprato il biglietto del treno? "Hai dieci
lire? Neanche cinquanta? E cinquecento? E mille?". Il suo stupore dopo il
no metteva il taccagno al muro. Almeno questo è successo a me, quando è stato
il mio turno. Dopo che gli avevo negato le sue legittime mille lire, il vecchio
riconobbe il segnale della mia disonestà. Un segnale fisico: una vampata di
rossore, un tremolio della palpebra. Emise uno strano verso, tra il guaito e il
gemito del nonno in agonia. Gli diedi una banconota da diecimila lire e scappai,
insultandolo a sangue. Un signore in abito beige che somigliava a Max von
Sydow, non si sapeva da dove venisse: qualcuno diceva che era argentino,
qualcun altro austriaco o polacco. Il suo accento era indefinibile. Il suo
sguardo poteva abbracciare tutte le identità che racconti più meno coerenti,
più o meno originali, gli avevano attribuito. Dicevano che era stato ricco, e
che aveva perso tutto giocando a poker. Ma questo lo dicevano anche di altri
che ricchi non erano mai stati. Non mancavano le storie minuziose. La più
verosimile parlava di un uruguagio di origini tedesche, direttore di una
filiale del Banco Hipotecario del Uruguay,
impazzito dopo lo scandalo che lo aveva travolto per aver negato un prestito a
qualcuno. Qualcuno che poi si sarebbe ucciso, lasciando un biglietto di addio
in sé banale, ma corredato di un’accusa verso chi aveva messo il timbro sulla
sua rovina. Il funzionario ne pagò tutte le conseguenze: dovette risarcire
personalmente i familiari del suicida, che gli avevano fatto causa. La pazzia
fu per lui una grazia. Dopo una lunga cura, si riprese. Venne in Italia per un
periodo di riposo, ma sulla spiaggia di Baia Jalillo ebbe una ricaduta. Avvicinato
da un venditore di occhiali, gli rispose di non potergli dare soldi, non
essendo lui il proprietario della banca, ma solo un impiegato.
"Neanche un'offerta a
piacere vostro?".
Il direttore impazzì di nuovo,
e stavolta non sarebbe guarito. La famiglia gli trovò un alloggio a San Marco in
Lamis, per non affaticarlo con un viaggio transoceanico; o forse per liberarsi
di lui. La leggenda uruguaiana era così dettagliata che sembrava plausibile. I
dettagli però erano troppi e troppo esatti.
Certo un mendicante tanto
signorile non l'avevo mai visto. Pare che il completo beige che lo distingueva
nelle sue questue per le vie del paese, fosse quello che portava tutti i giorni
in ufficio. Lo vedevi camminare lento e imbambolato, lungo come un pioppo
gambuto. Chiedeva monete con un tono di cortese distacco, in un italiano appena
macchiato da un accento straniero. Non accettava banconote. Un pomeriggio ero
seduto con due amici su una panchina del parco; lui ci passò davanti. Ci chiese
una moneta.
"A piacere
vostro...".
Io gliela diedi, non per bontà,
ma perché il suo sguardo mi intimidiva: aveva negli occhi il lampo buio del
professore a riposo. Si mise la moneta in tasca e avvicinò il suo volto al mio.
Furono due secondi quasi di paura. Mi diede un bacio sulla guancia e se ne
andò, senza dire una parola. Non l'ho più rivisto.
Nell’estate del 1984, Sergio
era bagnino al Lido Gabbiano di Rodi
Garganico. Non sapeva nuotare, ma aveva buona memoria. Non avrebbe dimenticato
l'incontro con un signore alto e gentile, che chiedeva l’elemosina ai bagnanti.
Sergio gli diede cinquanta lire, e l’uomo lo ringraziò con un bacio sulla
guancia. Sotto il sole cattivo di ferragosto, indossava un completo di lino
beige. Era straniero, forse scandinavo, e parlava parecchie lingue. Qualcuno
disse che faceva l’attore e che aveva avuto un esaurimento mentre girava un
film in Italia. L'anno dopo uscì nelle sale Il
pentito di Pasquale Squitieri. Sergio ne era sicuro: il lungone che
interpretava quel banchiere infernale [1] lui lo conosceva. Gli aveva
pure prestato dei soldi.
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