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Sparsi

Fotogramma da So goes my love (Un genio in famiglia), 1946



Zio Vito, Gesù, la pipa, gli sbocchi di sangue.

Aveva la cirrosi, sebbene non bevesse. Collezionava strafalcioni di grandi scrittori e altre cose strane (elencarle). L'unica collezione sensata era quella delle pipe, che io usavo per i miei giochi fantastici (il lato negativo e quello positivo, con pipa o penna, le corse intorno al tavolo, mio padre che mi sbugiardava con disprezzo).

La moglie abbracciata alla bara.

Ho deciso di non avere successo per non rimpiangere gli anni in cui lo avevo avuto.

La "e" chiusa di "fratéllo", ripetuta in cadenze d'amore, come a chiuderne la memoria in una gabbia sonora. Le altre volte la "e" aperta per lasciarlo andare da solo sulla strada di Rodi Garganico. Le isole borromee, che lui aveva visitato, i limoni. 

Una specie di destino univa le nostre strade che mai più dovevano incrociarsi.

Mia madre, le braccia in croce, dopo essersi denudata in chiesa. 

Lo scemo del paese che la derideva, la nuda, la matta. Io a scuola scrivevo un tema e la odiavo, perché la sera prima mi aveva guardato con occhi di abbandono, dicendomi parole arrese a un destino che non era il suo. 

La odiavo perché non poteva (per me non voleva) occuparsi di me, e solo suo fratello, perduto nella campagna, poteva amare come una madre.

Filena, bellissima e atletica nel dominio della volée con cui sbatteva i tappeti. Un'idrometra che faceva flessioni sull'acqua. Alle sei del pomeriggio, quando timbrava l'uscita, aveva lo stesso profumo di quando pascolava greggi nel corridoio: mai una goccia acida che le sporcasse il trucco, la bocca, chiusa come un pugno, era un invito a ballare, la parlata scura di amazzone campana che mi chiamava al telefono, gli occhi che raccontavano malinconie assolate, l'amore per il fratello morto a ventun anni e il lavoro, l'etica del dovere mischiata al lamento, quel suo "ho sbagliato", prezioso come un acino di uvetta nella scarola; l'eco di quella frase, che avrei baciato sillaba a sillaba, mi scavava il torace mentre scendevo le scale per incontrarla. A una bambina seduta sulle sue ginocchia chiedeva: "Sono bella?". Nessuno aveva il diritto di scordarselo.

Il bacio, che tanto avevo desiderato e che ricambiai malamente.

Le manie, i tic, le nevrosi che la intenerivano, ora sono un marchio d'infamia (intonare le mollette agli abiti, per esempio).

Flora dominante, Gianluca il soldato che non sapeva sparare. Io che mi faccio piccolo piccolo per entrare nel petto di Gianluca e far battere il suo cuore.

Gaudenzio e il Signor Belvedere (il giro del mondo, suo e del figlio fisico nucleare "provinato" con successo dal Bayern, il brevetto da pilota, le tre fidanzate, Michael Jackson e la tigre).

E' che mi sto facendo una brutta fama: dicono che sono un grande lavoratore. Sì, un lavoratore, e pure grande. Porca troia.
Insomma aspettavo il bus che mi avrebbe riportato a casa. Dal lavoro, porca... dal lavoro. Sotto la pensilina, accucciato sotto un abbaio di sole d'aprile, un tipo - trent'anni, trentacinque, alto poco, ubriaco dalla testa alle scarpe - aspetta il bus come me. Sto per chiedergli se il bus passerà di lì, perché c'ho un dubbio, ma poi mi accorgo che è ubriaco come una scimmia e sto zitto.
Mi si avvicina, accende dalle palpebre un azzurro spento e mi fa:
"Sei albanese?".
"Sì" gli dico per non deluderlo.
"Gli albanesi sono i miei migliori amici" (lui pare del posto, piemontese o qualcosa di simile).
"Bene...".
"Sono stato in ospedale. Mi avevano detto che mi avrebbero dato da mangiare, ma niente, neanche una minestrina mi hanno dato, quei bastardi".
"Mi dispiace" gli faccio distratto, pensando al bus. Passerà di lì?
Mi chiede di chiamargli un taxi col telefono.
Invento una scusa banalissima, che mi sembra originale dopo che il ragazzo a cui l'ubriaco aveva fatto la stessa richiesta gli ha risposto: "MI dispiace, ho il telefono spento".
Io gli avevo risposto che era scarico. La mia scusa era molto più logica. Un telefono spento puoi riaccenderlo; uno scarico è scarico, no?
"Mi chiameresti il 112?".
"Non posso" gli rispondo. Mi hanno rubato il telefono. (Questa sì che ha senso.)
"Ma il bus va a Gravellona? Io vorrei andare a Gravellona prima di morire".
"Boh" gli dico. "Non so dove sia Gravellona". Vabbè, è a sette chilometri da casa mia, ma non voglio che si pensi che ci sono mai stato, a Gravellona. Ci abita una psicopatica che ha cercato di mandarmi in galera, e pure un professore di chitarra abusivo, che la chitarra la suona male e che si lava una volta al mese per non disturbare il sonno del vicino (un muro divide il suo bagno dalla camera da letto del vicino). Secondo me è una scusa: non ha voglia di lavarsi. Le rare volte che ha fatto la doccia, arriva a scuola e mi dice con una fiatata cadaverica: "Oggi ho fatto una doccia bestiale!". Come per ribadire che si è trattato di un evento, come per dire che anche una bestia ogni tanto può decidere di lavarsi. Ma perché dico queste str...ate?
Insomma, l'ubriaco sbarella, barcolla, smoccola, pencola ma non casca. Agonizza ma non muore. Maledice i medici dell'ospedale, che non gli hanno dato da mangiare.
"Manderesti un messaggio alla mia ragazza col tuo telefono? Dille che sono morto stamattina ma che la penso sempre. Diglielo, ti prego...".
"Non posso, non ho il telefono". (Questa è la migliore di tutte.)
"Mi avete abbandonato tutti. Froci di merda!".
"A chi dici frocio, oh!". Divento aggressivo.
"No no, non dico a te. Ce l'ho coi medici. Tu sei un grande...".
"Un grande che?".
Mica mi ha visto uscire dalla scuola? Mica gli hanno detto che sono rimasto fino a tardi a ramazzare per lasciare i cessi puliti alle voci bianche delle medie, che peraltro odio (i ragazzi e le medie, tutti insieme)? Mica gli hanno detto che sono un grande lavoratore? Scimmia maledetta, vieni, stendi la mano, ti do venti euro per comprarti la bottiglia che ti scoppierà il fegato. Vieni, vieni... muori con me.
"Me ne torno all'ospedale" mi fa il morto non morto e se ne va barcollando sul marciapiede.
Anche lui, come me, innamorato dei suoi carnefici.


Non scrivo un rigo da anni. Non ne ho voglia. Eppure qualcuno ogni tanto mi chiede quando scriverò un altro libro. E chi ha mai scritto libri? Ho pubblicato due raccolte di poesie. Orrende. Due raccolte, ma nessun libro. Se fossero stati libri, nessuno di quelli che mi chiedono quando scriverò un altro libro, direbbe:
"Quando scriverai un vero libro?".
Avevo omesso l'aggettivo esatto. Nessuno mi chiede quando scriverò un "altro" libro, ma quando scriverò un "vero" libro.
Non posso dargli torto. Neanche di questo ho voglia.

Ho temuto, ma ora spero che Remigio si metterà con C. E se non sarà lui, che sia un altro. Tutti tranne me. Non sum neque eram dignus.

"Ci penso io" disse il sindacalista gentile.

"Tutti i documenti". Essere perentori. 

Io e il geco. Le manie che le piacevano non le piacciono più. A nessun'altra potrebbero piacere.

I miei giri intorno al tavolo con una penna in mano. Mio padre che mi deride, mi svergogna senza vergogna.

Morire non conviene (almeno per ora)

Il problema della morte: conviene di più ammazzarsi e correre il rischio che i tuoi amici ti celebrino come il poeta che non sei mai stato, o aspettare che i tuoi amici ti precedano nella tomba? Escludo la strage, a meno di accampare a difesa la motivazione, apparentemente illogica, del desiderio di essere dimenticato, mentre è notorio che la maggioranza degli assassini seriali desidera essere ricordata. In tal caso dovrei uccidere tutti i miei amici, tranne uno: il mio amico avvocato. Nella speranza che neanche lui dopo voglia celebrarmi come poeta; in tal caso dovrei uccidere prima lui e poi me. Col rischio di essere ricordato solo per questo.

Ci sono sanseveresi che non amano la Festa del Soccorso, e ne hanno il diritto; ma ci sono anche tedeschi che schifano la birra, francesi che non arrotano la erre, svizzeri con il senso dell’umorismo. La Festa non è necessario amarla, per sentirla nostra: ci appartiene a dispetto di ogni fastidio e per questo ci somiglia. Io dovrei detestarla, per via del disagio che provo quando sono immerso nell’umanità in piena; mi piace troppo il silenzio, mio e altrui; soprattutto, ho terrore del fuoco. Il fuoco in cui i sanseveresi si bagnano con gioia sensuale. Eppure, amo la Festa: l'odore schietto delle famiglie che planano sulle bancarelle; i dolci che scimuniscono le mosche; la folla che gonfia i viali e trapela nei vicoli (e lasciamo stare la moltitudine fatta di solitudini: retorica buona per i diari adolescenziali). Mi piace il fatto che la città sia viva tutta, e che per tre (ma pure quattro, cinque va’) giorni all’anno non esista la periferia; mentre per il resto dell’anno a dominare è l’idea di una periferia che si prolunga fino al centro. E mi piace che si cominci ad aspettare maggio prima che maggio sia finito, per celebrare ognuno la sua ricorrenza-dimenticanza. I santi e la Madonna, non me li scordo: finisco per credere anche in loro, io che su Dio ho solo sospetti. ("Fuoco, corri con me", pubblicato su "Andiamo!", il 17 maggio 2025, ma scritto vent'anni prima per "Sguardi" con un altro titolo e qualche aggettivo di troppo.)


Ti nascondono i morti. Se sei un bambino e i tuoi genitori devono fare festa alla morte, perché qualcuno non c'è più, dico un funerale, quella roba lì; se sei un bambino non ti ci portano. Non so se sia giusto; magari sì, eppure la morte non è una cosa così brutta.

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