István Nyers |
Il dialetto lo capisco, ma non
lo parlo. Il dato in sé è banale. Ce ne sono parecchi di sanseveresi che non parlano il dialetto
(alcuni di loro fingono di non capirlo); ma tutti o quasi hanno la
giustificazione di essere emigrati molto giovani. Una mia compagna di liceo si trasferì a
Volterra, subito dopo la maturità. Un mese più tardi mi telefonò. Faticai a
riconoscerne la voce, perché aveva foderato il suo accento di una quantità
urticante di aspirate e di interiezioni, che pretendevano di suonare toscane.
Quel camuffamento sembrava il segno di un disagio. Era partita per non tornare;
il viaggio di sola andata la costringeva a una metamorfosi. I primi ad
accorgersene dovevano essere i compaesani. Io invece l’integrazione l’ho
cercata a casa mia. Quando vivevo a San Severo, spesso mi chiedevano di dove
fossi.
Un tale una volta mi ha detto:
"Hai un chiaro accento
laziale. Sei qui per lavoro o per amore?".
Avevo trascorso una mezza
giornata a Tivoli, ventidue anni prima.
È che ho una dizione strana. Eppure
da bambino ci avevo provato, a parlare il dialetto. Pronunciavo una parola, e
il mio interlocutore rideva. Dopo essermi esercitato a lungo, avevo imparato una
frase, che non riporto; la dissi a un balengo che mi dava fastidio. Lui mi rise
in faccia e mi rispose:
"Sei di San
Nicandro?".
Una frustrazione continua.
Così ho smesso anche di provarci. Cerco di giustificarmi: non sono pugliese nel
sangue. Giustificazione insufficiente.
Sono nato a Melfi. Chissenefrega. Giusto.
Gli amici, la strada, la
scuola che li hanno inventati a fare? I professori al naturale che ti sfottono
- quanti 'nzallanutë nel loro
intercalare - dove li mettiamo? Insomma, non sono giustificabile. Dimenticavo
il primo laboratorio linguistico di ognuno di noi: il quartiere.
“Non ti ha insegnato niente,
la vita del quartiere?”.
Mi ha insegnato tanto: a fare
a mazzate, a giocare male a pallone, a innamorarmi di un paio di ragazze splendide
e vaiasse. Ma il dialetto non me lo ha insegnato. Qui forse una piccola
giustificazione ce l'ho. Il condominio in cui abitavo era una cooperativa di
agenti della polizia penitenziaria: venivano tutti da fuori. C'erano campani,
lucani, baresi, salentini, e nessun sanseverese. I ragazzi del palazzo non
erano nati a San Severo, come non ci ero nato io. Ognuno parlava una sua lingua
personale, che non era precisamente quella dei genitori e somigliava poco a
quella del posto. Un miscuglio di suoni che inseguiva un'altra musica, nascosta
chissà dove. Anche per questo dico di essere un sanseverese affezionato, ma non
assimilato. Almeno linguisticamente. Non ne sono fiero, ma non me ne vergogno.
Non più.
Eppure ti capita di salire in
cattedra, anche se parli un’altra lingua. Ci sono parole misteriose, che hai
sentito soltanto tu. Quella parola composta: “Squacciaciunnë…”.
Nessuno dei miei amici l’aveva
mai sentita. Io l'avevo orecchiata una sola volta, da una ragazza che
passeggiava sul viale della Villa, in direzione opposta alla mia. Un tuono
sparato dalla terra. La ragazza aveva detto a una sua amica che un tale che le
moriva dietro era, appunto, uno " squacciaciunnë. Il senso del
termine potevo solo indovinarlo. Il tipo era un cacacazzi? Uno sciupafemmine?
Mi immergevo in elucubrazioni para-semantiche. Fissazioni da glottologo
dilettante. Il significato restava oscuro. E stavolta non solo per me.
Da un po’ di anni vivo in una
piccola città, quasi al confine con la Svizzera. Qui il mio accento passa
inascoltato, e quindi lo ostento con disinvoltura. Il mio libraio di fiducia,
che ha viaggiato tanto, fino a poco tempo fa credeva che fossi abruzzese. Lo
dava per scontato, e perciò non mi aveva mai fatto domande sulle mie origini. La
sensazione di essere un apolide, non mi disturbava da tempo. Un giorno,
distrattamente, mi chiese di dove fossi.
"Puglia, Basilicata... Dipende".
"Ah... E in Abruzzo ci
sei stato?".
"Di passaggio".
"Io per un po' di anni ho vissuto a Parigi".
"Parlerai bene il francese…".
"Macché. Però lo capisco".
Siamo diventati amici.
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