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L'intellettuale in ombra (revisited)


 

Vivo qui da anni e non ho mai incontrato un intellettuale.

"In città non ne troverai", mi hanno detto.

L'affermazione è troppo perentoria. Perché non è possibile che un chilometro quadrato qualsiasi di un qualsiasi luogo della terra ne sia privo; parlo degli intellettuali, delle sottospecie più varie: scrittori, cioè romanzieri, poeti e saggisti, oppure storici, storici dell'arte, studiosi di tradizioni locali, antropologi, geografi, enologi, gastronomi (intellettuali anche loro).

Da tempo la parola "intellettuale" ha assunto un senso negativo, che io non intendo attribuirgli, ma è vero: per molti intellettuali, l’aggettivo sostantivato che li definisce già da solo rappresenta un insulto. Se gli si aggiunge la locuzione “in ombra” [1], l’insulto diventa oltraggio.

Non so se tra gli intellettuali vadano compresi gli artisti.

“Qui mancano pure quelli”.

Se si trattasse solo di avvertirne le vibrazioni in un incontro casuale per strada, non sarebbe difficile ignorarli - alcuni hanno un'aria di ingenuità scontrosa, spesso artefatta, o mostrano una curiosità esagerata per tutto ciò che li circonda, o mancano del tutto di curiosità: preferisco questi ultimi -; ma l'intellettuale che ti viene addosso per avere la tua attenzione, non puoi evitarlo.

La mia sensazione è che qui gli intellettuali abbiano pudore di mostrarsi. Forse sono timidi.

La città in cui vivo è poco più di un paese sull'orlo di un piccolo lago, che gli abitanti della città vicina, affacciata su un lago molto più grande, chiamano Bacinella. Molte persone praticano lo sport. Anzi gli sport. Quasi tutti, da quelli di squadra a quelli individuali: lo sci, il ciclismo, il tennis, la corsa campestre. Fanno sport e ne parlano. Una volta, seduto al tavolo di un bar, ho orecchiato la conversazione tra due vecchi sportivi. Uno aveva giocato a pallacanestro per più di vent'anni; l'altro era stato un discreto canoista. Il primo si vantava di aver segnato migliaia di punti in carriera; non ricordava quanti. In una partita di vecchie glorie, aveva umiliato il grande Jonah “Flute” Amherst, che non l’aveva presa bene. L'altro aveva vinto cinquantasei gare individuali e in tandem. Il primo era dispiaciuto, perché il suo unico figlio era poco più di un nano e giocava a calcio; il secondo aveva parole di malinconica tenerezza per il primogenito, a cui lo sport piaceva guardarlo e basta. Del secondogenito non voleva parlare.

Le conversazioni che mi capita di ascoltare riguardano solo lo sport attivo. Anzi gli sport. Sono quasi sempre i vecchi a parlarne. Senza vecchi, la città sarebbe una sbriciolata di rovine. Quelli che l’hanno costruita, sono gli stessi che la tengono in piedi. (Accade anche altrove, ma qui in una misura che non avevo mai visto.) I vecchi camminano, corrono, si immergono con le bombole, conoscono i funghi, sparano ai caprioli e parlano del futuro, di cosa faranno tra venti o trent’anni. I vecchi hanno inaugurato la mensa comunale; finanziato il restauro della chiesa madre; bonificato personalmente una boscaglia malandata che si affaccia sulla riva sudorientale del lago. Negli anni era diventata un immondezzaio: adesso splende di faggi e di tigli. I vecchi organizzano convegni sulla tutela della fauna ittica; attività in apparente contrasto con la pesca illegale del coregone, in cui sono abilissimi.

Molti hanno appetiti robusti; alcuni mangiano come ci si aspetta che mangi un vecchio: poco e in forma semiliquida; ma questo non li indebolisce e raramente li rende tristi.

Un giorno mi ero messo in testa di percorrere il sentiero che si inerpica sulla Pedrazza, la montagna che separa la Bacinella dal Lago Grande. Avevo scelto il sentiero più accidentato, più breve rispetto all’altro, per guadagnare tempo, ma soprattutto per vanità, perché era il percorso consigliato ai camminatori esperti. A metà strada, dopo due ore e passa di maledizioni e sputazzi, arrancando lingua a terra sui gradoni scavati nella roccia, mi vedo superare a velocità doppia da un donnino spigoloso, abbrustolito: pesava sì e no quaranta chili. Dimostrava minimo settantacinque anni. Il viso era un ventaglio di rughe, ma il corpo aveva un’agilità caprina, con le cosce turgide e due braccia secche e venose che neanche mia zia Melina quando da ragazza spaccava la legna per l’inverno. La sua anatomia sarebbe piaciuta al dottor Gunther von Hagens, il tedesco che gira il mondo per esporre cadaveri nudi nel loro splendore muscolare.  

Io mi ero appesantito e lo sapevo. Giuro che non conosco l’orgoglio del maschio di mezza età, che non accetta l’idea di essere meno atletico di una signora; ma che almeno la signora sia giovane. Il donnino aveva forse più di ottant’anni. Saltava da un gradone all’altro, ogni zompo un oplà rabbioso delle giunture che sfregavano l’aria. Quel corpo ossificato il dottor von Hagens lo avrebbe esposto vivo, senza alterarlo coi polimeri di silicone. Mi prese lo sconforto. Tornai indietro e lasciai la montagna al donnino, che ne soppesava la cima con la visiera del berretto.

In città il tipo fisico segaligno è il più diffuso, tra gli uomini, ma specialmente tra le donne. Ce ne sono di molto giovani e segaligne, e di molto vecchie ancora più segaligne, ma nessuna di loro dà l’impressione di fare fatica quando corre o si arrampica. Tutte fanno sport con gioia e non per senso del dovere. Chissà quante di loro spaccano la legna.

Nella mia città di origine, invece, ho incontrato pochi sportivi, ma molti intellettuali e un numero imprecisabile di artisti. Di questi ultimi so solo che parlano bene dei colleghi che detestano, purché meno in luce di loro. Gli intellettuali parlano male dei colleghi che stimano, e si accompagnano volentieri con quelli che disprezzano, purché la loro ombra non li oscuri. Quando la figura dell’intellettuale e quella dell’artista coincidono, hai davanti l'esemplare più rumoroso di Narcissus poeticus autoctono. 

Gli intellettuali sportivi sono poco interessanti.

Che si parli di intellettuali o di sportivi, in entrambi i casi è innegabile l’umano desiderio di prendersi uno spicchio di sole. Bisbigliare a occhi socchiusi il proprio nome stampato sulla copertina di un libro; sentirlo crescere dalla curva dopo un gol: chiamano te, proprio te. Ma ridurre il discorso a un fatto estetico, non sarebbe giusto. E non sarebbe giusto neanche dire che tutta la vanagloria del mondo si concentri nella mia città. Un fanatico della forma fisica non è meno egotico di un professore di inglese, che pubblichi quattro romanzi all'anno. E la questione dell'avere qualcosa da dire, avrà pure il suo peso.

È onesto censurare l’ambizione di chi vuole esprimere la sua visione del mondo, anche se questo si riduce al pianerottolo? Non si biasima un nuotatore amatoriale perché non ha partecipato alle Olimpiadi. La maggior parte degli sportivi dilettanti non ha velleità che vadano al di là dell'umiliazione dell'avversario, dilettante come lui. Camp Nou ribollenti e crocchi di famigliole in estasi: la carezza all'ego è la stessa. Ma uno scrittore...

In quel ma c'è tutta la differenza che la mia piccineria stabilisce, tra i dilettanti che non possono mai essere tali senza sentirsi degli esclusi, e quelli che possono esserlo sempre, perché giocano e si divertono. Tutti i ma dei romanzieri di paese non valgono un se del calciatore mancato. Che ha sempre una giustificazione. "Se non avessi bevuto... Se mi fossero piaciute di meno le donne, giusto un po’ di meno… Se non avessi il terrore della folla... adesso giocherei in serie B".

In B, perché i fuoriclasse di quartiere conservano il lievito madre della loro umiltà.

Gli scrittori non possono permetterselo.

"They can't afford it", direbbero gli inglesi.

C'è una tristezza, nella solitudine degli scrittori anonimi, che emana un’altra luce, rispetto alle tribune vuote dei campioni di fama rionale. Una tristezza irredimibile che, quando la incrocio per la strada, riconosco come un richiamo da simile a simile. Perciò ne ho paura.



[1] D’ora in avanti la locuzione si consideri sottintesa.




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