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"Za" senza esclamativi

 


Vignetta di Leonardo D'Orsi


Il giornale non era davvero un giornale (usciva una volta al mese), e morì stravecchio un anno dopo la nascita.

Lo avevamo chiamato “Za!”, parola che i miei concittadini conoscono bene.

"Za!" per dire "vattene via, bestiaccia!", di solito ai cani, che non sempre sono bestiacce, ma se sono malati e balordi, se puzzano di miseria triste, ti somigliano, e tu non hai voglia di specchiarti nelle pozzanghere mentre cammini; qualche volta lo dici ai fastidi che la vita frappone tra te e la strada, gli inciampi, la sfiga, i conti che non possono tornare. Il malessere rifinito in forma di bastardo. Za! Za! cazzo... Za!

Il termine però si adattava anche a fissare l'atto del taglio, come variante più perentoria e sciccosa di “Zac!”. L'esclamativo certificava il gesto come le forbici di un notaio.

Nell’autunno del 2004 io e un amico, che chiamerò Franco Gravino, volevamo dire la nostra sul mondo e "dare fuoco agli scampoli della giovinezza" (qualsiasi cosa un’espressione così enfatica voglia dire).

C’erano anche Edgardo, musicista, produttore e tanto altro, tutto in musica, e Leo, l'artista meno egotico dell'Emisfero occidentale. Volevamo fare un giornale. Umoristico, peggio: satirico. All’inizio avevamo pensato a un giornale “vero”, lontanamente culturale, un bollettino dedicato al teatro aut similia... ehm…, ma a me l’idea non piaceva. Nessuna idea mi piaceva, tranne quella di continuare a non fare niente. Franco invece era uno che la vita non si limitava a immaginarla. Franco era motivato, Edgardo sembrava convinto e Leo la sua manina l’avrebbe fatta lavorare bene.

Qualche mese prima, io, Franco, Leo, Rino, Nico, Berardo e altri eravamo stati imbarcati dal comico Gino Nardella in un progetto politico. Una cosa seria che faceva ridere. Il programma elettorale non era male: era vago il giusto, rimasticava con sapiente furberia le idee predigerite di Beppe Grillo, non ancora garante. La lista si chiamava “Quill ca”. Quelli che. Riferimento a un pezzo di Gino, che faceva l’occhietto a Iannacci. Un quasi-movimento politico fondato da un comico, tre anni prima della grande purificazione a colpi di vaffa a Bologna. Senza saperlo, Grillo sarebbe stato l'epigono meno spiritoso di Nardella. Che non aveva dimenticato un esempio scandaloso. Nel 1981 Coluche si era candidato a Presidente della Repubblica francese. Coluche era un comico pure lui, e di cognome faceva Colucci. Qualche anno dopo l'accenno di scalata all'Eliseo, girò un film con Beppe Grillo.

La storia del partito col giornale non c’entra niente, ma un po’ c’entra. Partecipammo alle elezioni comunali del 2004; appoggiavamo Michele Santarelli, che le elezioni le avrebbe vinte. Noi no. Raccattammo duecento voti voti (1) tra parenti riluttanti e amici renitenti. Non ci avevano capito o forse sì. La nostra comunicazione comicarola; gli slogan finto-cafardi sparati col megafono da una Seicento: “Per una San Severo meno beduina…” avevano spiazzato gli spaccachiazza e le persone serie, che non ci votarono.

Però una specie di seme rimaneva incastrato nei nostri pensieri.

Soli e scarsi i pensieri; le parole incerte; nessuno di noi aveva scritto mai un rigo che sognasse di diventare un articolo: perché non fare un giornale? Massì…

I buoni esempi in città non mancavano.

Ci riunivamo nello studio di Franco, che, oltre a fare l’attore e il regista teatrale, aveva un lavoro onesto, di cui non gli piaceva vantarsi. In giro si diceva che fosse un fotografo, ma lui lo negava con una forza tale che non si poteva non credergli. Ogni tanto ci capitava tra le mani un album fotografico con la sua firma stampigliata sulla copertina. Franco ammetteva che le immagini di quel matrimonio erano opera sua, ma ribadiva che il suo lavoro era un altro. Anche le fototessere per un tristone seduto su uno sgabello a favore di lampada le aveva scattate lui. Non era la vanità di chi sa di essere un artista e rifiuta di entrare nella gabbia di un mestiere ordinario, anche negando l'evidenza. Era qualcosa che somigliava al pudore e gli faceva arrossire l'anima.   

Ci riunivamo nel suo studio; lì pensavamo e scrivevamo i pezzi, ideavamo le vignette (Leo in realtà le disegnava a casa sua), impostavamo l’impaginazione: tecnicamente se ne occupava Franco, che per modestia negava di essere un grafico; discutevamo degli argomenti e delle rubriche, compresa quella dedicata alla posta dei lettori. Questo prima di esordire in edicola, quando cioè non avevamo lettori che potessero scriverci. Le prime mail ce le inventammo: suggerimenti non richiesti, consigli su come scrivere un buon pezzo o disegnare in modo decente, insulti, qualche minaccia a denti stretti. Tutto finto e perciò verosimile. Fummo tra i primi impastatori dell’odio internautico, ma era un odio omeopatico, autoprodotto e ben argomentato.



Vignetta di Leonardo D'Orsi


Io battevo i pezzi nella mansarda dello studio, sulla tastiera di un vecchio PC sconnesso dalla rete. Era stato Franco a insegnarmi a usare il programma di scrittura. A trentatré anni non avevo mai guardato negli occhi un computer.

Franco aveva dimestichezza con la tecnologia, sebbene non fosse né un informatico né un programmatore.

Ci volle un mese di lavoro quasi quotidiano per coprire d'inchiostro due lenzuolini in bianco e nero. Una decina di articoli che fagocitavano cinque vignette.

Il primo, funereo numero del giornale uscì nel novembre del 2004.

Era grigio-cupo. Un necrologio scollato, con il nome e la data sbagliati, sullo sfondo di un pomeriggio di pioggia nella più dimenticabile delle periferie.

Uscì nel giorno dei morti e aveva in prima pagina una vignetta orrenda disegnata a penna: mostrava due teschi che chiacchieravano "sulla riva del nulla”. Di quella vignetta posso sparlare senza pentirmi, perché l’avevo fatta io. Il resto dell'impaginato seguiva la scia spirituale della vignetta, che pretendeva di essere divertente: una sfilza di articoli malinconici e malmostosi, e qualche sprazzo di genio. A volte il genio è una cosa da nulla, un colpo di tosse, diceva Montale.

Dal numero successivo, cercammo di dare un minimo di stile a quel caos di disegni e di parole gettati nel vuoto col solo scopo di produrre effetti comici. Senza vergognarci delle trovate più bieche. Parlo soprattutto di me, dei miei calembours di quarta mano.

Il giornale, che in realtà era un mensile, bello non era, eppure le mille copie, stampate in economia e distribuite nelle edicole e in qualche locale, andavano via in poche ore. Le davamo gratis, e allora? Se mi regalano un dilatatore anale mica me lo prendo. Se mi garantiscono che funziona, magari ci penso, ma i dilatatori anali non funzionano mai come dovrebbero. Il giornale invece funzionava, anche se non era bello. Mostrava qua e là dei lampi di fantasia sparsi a caso sulle otto pagine di carta riciclata: le vignette di Leo erano divertenti, centravano il cuore sbruffo del sanseverese che non si sentiva preso in giro. Eppure non facevamo altro che prendere in giro. Non eravamo cattivi, perché non potevamo permettercelo; sfottevamo lo sfottibile, facendo in modo che lo sfottuto non se la prendesse troppo. I pochi che si offendevano, sbraitavano, roteavano i pugni, gridavano la frase guida dei chiachilli: “Teniteme… teniteme…”; alcuni ci accusavano di essere destrorsi; altri di essere sinistrorsi; i più raffinati ci chiamavano qualunquisti; i più generosi, usando altre parole, omosessuali passivi, e qui si riaccendeva l’ombra del dilatatore. Se almeno avesse funzionato…

Quelli particolarmente suscettibili minacciavano una querela, ma l’unica che rischiò di arrivare a destinazione ce l’aveva promessa il nostro direttore responsabile. Giuro che è vero.

Alla voce Redazione, sotto la vignetta monstre che occupava l'intera ultima pagina, avevamo elencato i nomi di qualche decina di amici che avevano promesso di darci un testo, un disegno o un'ideuzza; di quelli a cui avevamo strappato un sì distratto e di quelli che ci avevano detto forse un giorno chissà magari boh. Compreso Gino, che al giornale non collaborò mai, perché aveva di meglio da fare. Come tutti gli altri. Ma qualcuno, avendo visto il suo nome tra i collaboratori, si era convinto che il giornale fosse una sua invenzione (macché) e che avesse l’impronta del suo stile (ma dove?). Ecco il link col partito mai arrivato al potere: un nome affogato in una lista di collaboratori contumaci. Dodici mesi e una decina di numeri dopo, il giornale decidemmo di chiuderlo, un po’ perché iniziavamo ad annoiarci, un po’ perché a farlo eravamo in tre, e un po’ perché eccetera eccetera.

Nel 2015, cercammo di reidratare il cadavere. Volevamo rifare il giornale, ma stavolta bene, addirittura a colori, stamparlo su una carta che non ci si spappolasse tra le mani, e soprattutto definire i dettagli, scrivere bei testi, disegnare belle vignette e magari farci pagare.

Il panorama però era cambiato e noi con lui. Innanzitutto, non potevamo più giocare ai giovani, perché avevamo passato i quaranta; avevamo perduto i capelli (soprattutto i miei colleghi), il desiderio sessuale (soprattutto io), e quindi buona parte della linfa creativa che scuoteva la nostra poca cultura. Il disincanto era l’eredità più corposa del seme cui accennavo. Avevamo bisogno di sangue fresco e di soldi. Per la prima necessità coinvolgemmo Milius, un ragazzo che disegnava come pochi. Per la seconda, chiedemmo agli amici, che negli anni ci avevano incoraggiato e che sarebbero stati felici di darci una mano. Qualcuno una mano ce l’avrebbe data, purché non fosse la sua.

Di quell’idea di ritorno, restano le bozze di un numero zero mai uscito in edicola.

Le avevo consegnate a un amico - il più incoraggiante degli incoraggiatori -, che, dopo averle guardate, mi disse sinceramente che quel numero zero, tale sarebbe dovuto rimanere. Non gli piaceva neanche un po’. Era banale, sconcio, inutilmente volgare. Le vignette poi erano brutte e mal disegnate.

(Ero convinto che fosse la cosa migliore uscita dalle nostre mani. Sicuramente migliore dei dieci numeri buttati giù con allegra pigrizia, accarezzando il pelo dei lettori. Al mio amico quelli erano piaciuti tutti, e più di tutti il primo.)

Non obiettai nulla, ma almeno questo devo dirlo: i disegni erano bellissimi e posso provarlo.



Prima pagina del numero 0 inedito (disegno di Leonardo D'Orsi)


 

(1) Molti di più: 248. Riuscimmo a illuminare un piccolo tratto della "terza via", sbaragliando i Comunisti italiani, nostri alleati, che presero 38 voti meno di noi. 

 

 

 

 

 

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