Ti nascondono i morti. Se sei un bambino e i tuoi genitori devono fare festa alla morte, perché qualcuno non c'è più: dico un funerale, il primo viaggio del parente allungato in una Mercedes lussuosa come un panfilo; la tumulazione; il becchino tuo omonimo che si fa cadere di mano la cazzuola e smadonna e dice "Chitemmuort..." e il morto gli risponde "Che d'è?"; quella cosa lì, insomma, se sei un bambino non ti ci portano. Non so se sia giusto.
La moglie di zio Tore abbracciata alla bara (c'era mio zio dentro) la rividi cinque anni fa: piegata a metà come un coltello a serramanico, camminava sulla salitella che dalla chiesa madre portava alla chiesa nuova. In quel pezzone di meringa bianchissima sagomata, ci sono stati tutti i matrimoni e tutti i funerali della mia famiglia. La mezza zia aveva preso la forma del coltello abbracciando la bara del marito; ci si era appesa con i suoi quarantasei chili mentre la sollevavano per portarla al cimitero. La bara, con lei appesa. Prese quella forma di coltello piegato e non la lasciò più. A novantacinque anni conservava nei muscoli secchi la carogneria della resistenza alla morte. Resisteva da neo-vedova appesa alla bara, continuava a resistere cinquant'anni dopo appesa alle occhiate dei compaesani che pensavano: e quando muore, questa?
Non ho mai saputo come si chiamasse: in famiglia la chiamavamo Zia r' Zì Tore (zia di zio Tore).
Qualche sera prima di morire, zio Tore aveva avuto uno sbocco di sangue nero come il vino.
"Non è stata la cirrosi" diceva mia madre.
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