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Il conto che non torna


Capita a noi che parliamo della guerra in astratto: per uscire dall’angolo di una discussione, ci rifugiamo nell’inesattezza di una contabilità che non ci dà mai torto: diciamo “un milione di morti”, con la stessa disinvoltura con cui parleremmo di dollari o di bottiglie di vino. Un milione di morti non siamo capaci neanche di pensarlo, figuriamoci un milione e duecentoquarantamila, le vittime italiane, militari e civili, della Prima guerra mondiale. Eppure ci illudiamo di cavarcela così, rimasticando numeri per simulare una competenza che non abbiamo. Quando parliamo della Grande Guerra, siamo costretti a uscire dall’astrattezza e a entrare nei dettagli, e qui denunciamo tutta la nostra pochezza, perché all’ignoranza aggiungiamo una dolosa indifferenza. La scusa è la solita: è passato più di un secolo, e il tempo fa sempre lo stesso lavoro, cancella volti e immagini o li rende irriconoscibili. Perciò il volume che Aldo Sabatino ha messo insieme per ricordare i morti del ‘15-18, sanseveresi e non, va considerato un piccolo risarcimento. Non solo per i ragazzi travolti da una guerra che non poteva essere la loro, ma per tutti quelli che ai morti cercano di dare un volto e un nome, a dispetto della storia, che “arrotonda gli scheletri allo zero” (Wislawa Szymborska). Della storia per cui “Mille e uno fa sempre mille”, come se quell’uno non fosse mai esistito. Nella realtà il conto dei morti non torna mai del tutto; c’è sempre qualcuno che sfugge all’appello. Con il suo libro, un “anti-saggio” senza tesi precotte, in cui le immagini pesano più delle parole, Sabatino ci stana dalla nostra pigrizia, ci costringe ad ammettere che uno vale più di mille, perché quell’uno racconta – vorrebbe raccontare – una storia individuale, umanissima, che un numero corredato di zeri confonde nel mucchio delle vicende insignificanti. “Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa.” L’affermazione di Emilio Lussu è paradossale solo in apparenza. Uccidere un uomo è peggio che ucciderne mille, perché quell’uno lo si può guardare negli occhi: è quello che un proiettile esclude dal calcolo per approssimazione. La stessa conclusione a cui arriva Fausto Maria Martini nella poesia Perché non t’uccisi: “Non t’uccisi perché nella stess’ora / noi ci eravamo sporti sopra il fondo / gorgo del nulla, o sconosciuto e biondo / nemico (…) Non fu dunque per tema, / s’io non t’uccisi: fu per non morire!” “Io non sapevo che servire significa uccidere…” ha scritto più di recente Christopher Logue, parlando di una condizione comune a tanti uomini chiamati a combattere le guerre degli altri. Il libro di Sabatino è composto da foto di giovani in divisa. Quasi nessuno è tornato vivo dal fronte. Chi ci è riuscito, è morto dopo qualche mese; i più fortunati, dopo qualche anno. Accanto a ogni immagine, un testo – una poesia o una prosa poetica – di un autore del Novecento. Oltre ai poeti puri, come Ungaretti, Rèbora e Saba, ci sono quelli “occasionali”, come Bontempelli e Rocca, che il meglio di sé lo avrebbero dato altrove. Scrittori “ibridi” come Jahier. Gli interventisti come D’Annunzio, Soffici, Buzzi e Locchi, contro cui ora è facile scagliarsi, ma a cui si deve riconoscere almeno la coerenza delle idee e delle azioni (Locchi la guerra aveva voluto farla, e in guerra sarebbe morto a ventotto anni). Gli incendiari come Palazzeschi e gli arrabbiati come Gadda, che, se avesse potuto, avrebbe fatto crepare nel modo peggiore i responsabili del nostro sfacelo militare e i loro eredi. Ci sono gli uomini contro dall’inizio e quelli che lo sarebbero stati in seguito. Un apparato di testi che impressionano sempre, sia quando risuonano di una voce autentica, sia quando sono convenzionali e intrisi di retorica patriottarda. L’effetto, per chi li legge dopo avere fissato la faccia di un ragazzo dal cognome familiare, Minischetti o Russi o Del Vicario, è straniante, perché i testi e le immagini hanno un valore autonomo: i primi non sono la didascalia letteraria delle seconde, che non illustrano in modo posticcio le parole, ma le attirano nella loro dimensione povera e dimenticata. Di sicuro le immagini hanno una capacità di racconto che i testi, anche i più compiuti, non possono avere. Basta aprire il libro a caso per verificarlo: il cognome prima del nome, Salcone Ciro, come in un atto amministrativo, due date, la prima e l’ultima, il resoconto della morte, con la sua descrizione monotona, imprecisa: “deceduto il… in… per ferite riportate in combattimento”; lo sguardo serio di un uomo di vent’anni in posa da soldato. È qui che la nostra curiosità si sofferma più a lungo, anche se l’espressione dei soldati è sempre quella, e le parole dell’epitaffio non cambiano quasi mai. Neanche le foto dei morti anonimi, “estranei”, che incorniciano le pagine, rimescolano le emozioni con la stessa forza di quelle fototessere dall’aldilà. Ogni tanto ci si imbatte in un’epigrafe solenne, che descrive un’azione eroica, ma l’effetto è sempre quello del nudo comunicato. La differenza, rispetto ai ritratti dei militari “generici”, è tutta nei nomi e nelle date incollati alle fotografie, non nel come della morte in battaglia. Il fatto che il soldato sia morto da eroe o da vigliacco è irrilevante. A tutti è successa la stessa cosa, conta solo questo. Le facce, i cognomi che precedono i nomi, come in un elenco gridato in caserma, alludono a una quotidianità che ci è stata raccontata, non solo dai soldati-scrittori, ma anche dai soldati-contadini semianalfabeti, per i quali già scrivere una cartolina era faticosissimo. Lo storico Antonio Gibelli ha svolto un lavoro fondamentale in questo senso: il suo saggio La guerra grande – Storie di  gente comune (Laterza, 2014) analizza un numero considerevole di scritture di guerra. Tra i poeti scelti da Sabatino, Giulio Camber Barni è quello che restituisce meglio, con i suoi bozzetti di un realismo tenue e antiletterario, la vita degli uomini al fronte; i versi de La Buffa sono il corrispettivo poetico delle storie ordinarie, che le foto dei nostri soldati possono solo suggerirci. Una sua poesia si intitola, ironicamente, Fermi Tranquillo e parla di un uomo che smette il saio per arruolarsi, ma questo non farà di lui un temerario. I frammenti poetici dell’antologia non sono una chiarificazione delle immagini né un loro commento beffardo, è bene ribadirlo. La loro unitarietà è giocoforza tematica, e solo tematica. Ogni testimonianza esprime il particolare atteggiamento dell’autore verso la guerra, la sua disposizione d’animo nei confronti di un’esperienza definitiva, assoluta, che chiama in causa lo spirito e il corpo, la fede che traballa e le convinzioni che si sgretolano, portando il limite individuale un passo oltre il concepibile. Le sensibilità ovviamente sono diverse, e a ognuna corrisponde un tono di voce differente. Il discorso vale per gli intellettuali come per gli analfabeti, per le élites culturali come per i poveri cristi senza istruzione. Il grido di protesta contro chi manda materiale umano al macello, il gesto fraterno verso il commilitone ferito, l’atto di coraggio, possono accomunare tutti e appiattire le gerarchie, ma una cosa è l’adesione a un’idea o a un sentimento, un’altra l’espressione che gli dà un respiro lungo. Il privilegio degli scrittori è questo. Eppure ogni soldato ha della morte una conoscenza fisica, corporale, che esalta la sua umanità fragile. Piero Jahier vive la guerra come un’avventura solidale: il suo rapporto con gli Alpini, a cui da ufficiale deve dare ordini, è pietoso più che gerarchico. Nei suoi testi l’attitudine all’ascolto dell’uomo in bilico è evidente; l’uomo-soldato non sale mai in cattedra, e neanche il poeta. Ecco perché nelle sue poesie la parola “patria” ha la p minuscola: “Eh eh, ragazzi, la vita / non è poi così preziosa / sentite le condizioni: / tribolare emigrare ammalare / ospedali camorre prigioni. / Ehi, ragazzi, la guerra sapete / non è mica poi tanto cattiva: / almeno nelle vecchie storie / alla fine si moriva. / Quanto alla nostra grande patria: / la nostra parte di terra nativa / nel sacco, spatriando, / c’è sempre entrata. / A spalla è tanto che la portiamo.” C’è tanta pietà in questa poesia, come ce n’è nei testi di Corrado Alvaro e di Clemente Rèbora, e nelle prose liriche dei Trucioli di Camillo Sbarbaro, che certifica l’attendibilità  della locuzione “lasciarci le scarpe” nella visione di un paio di calzature vuote “al sole. Tozze; conficcate per la punta. L’uomo deve essere bocconi, la bocca disgustata premuta contro il suolo.”  Il tono di Paolo Buzzi è un altro: la Patria (necessariamente con la P maiuscola) è una bella idea per cui si muore e con cui ci si identifica fisicamente; l’asta della bandiera è un simbolo piantato nelle vertebre, la spina dorsale dell’uomo felice di diventare un automa votato alla bella morte: “Oh lussuria, sapersi / la forza d’una forza, l’arma / d’un braccio formidabile, lo svelto / strumento di morte possibile della Società.” Ma l’interventismo non è un pensiero unico, che escluda esitazioni o deragliamenti: il Bontempelli de L’Ubriaco è spesso realista, quasi mai magico, perché la verità del corpo in guerra è più forte di tutto e non ha i colori dell’arcobaleno: “Odore del camminamento / odore / odore / di cadavere usato merda fango”; e ancora: “Dormi, corpo, dormi / che a difenderti ci penso io. / Mangia il sonno a mascelle piene. / Ninna, nanna, corpo mio. / Sdraiàti nel fango si sta tanto bene. / Tu ci dormi come un dio.” Nel libro a parlare con voce propria sono i letterati, che dell’assurdità del conflitto hanno avuto una consapevolezza mediata dalla cultura. Solo chi conosceva il motto oraziano della dolce morte poteva ribaltarne il senso e svergognarlo: erano spesso autori di lingua inglese: Owen, Pound, Hemingway; e sì che per i popoli anglosassoni l’idea di patria ha avuto sempre un senso. Owen con una sconvolgente impennata umoristica aveva pensato di intitolare Beauty una poesia dedicata allo shrapnel, l’arma terribile evocata senza ironia da parecchi scrittori, per marcare l’antifrasi della bellezza che semina distruzione. I nostri contadini coscritti, invece, della verità della guerra presero coscienza solo quando la sperimentarono nella carne. La maggioranza dei ragazzi sanseveresi fotografati prima di morire, non potevano credere in una parola che chiedeva il loro sangue.

Prefazione a Dulce et decorum est pro patria mori…, di Aldo Sabatino, Esseditrice, San Severo 2017

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