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Little Exercises in Neglect, translation by Samuel Fleck



The first to fall were the plants
not by the will of time or fate
but of the so-called gardener
who had stuck them in the ground.
Planted there overlooking the pit
of the courtyard they were ridiculous: a puff of green
around the grey on four rows of thin
earth four failed flowerbeds
if you strained a little sparrow’s graves
not even worms were comfortable sleeping there.
Facing the asphalt downwind from the cars
they appeared to be mocking god knows what:
the nature, the art, the technique of balance.
But they were real plants with sap and leaves
that really fell off and renewed 
the circle of their existence their patterns, 
being those of trees, always concentric.
The birds that sheltered there
were real birds with feathers and a beak
and even the summer grasshoppers blew
their axillary raspberries that you heard  
until they wreaked havoc on your heart 
during your afternoon nap.
The plants had roots that burst
the asphalt: they left cracks on the surface
like the cracks on the crust of bread.
That is why they decided to remove them
the little ones with the big:
the thirteen-meters-tall pine
and the rose bush hanging on the gate
(every so often a yellowish hand
would take one and bring it to church
and I who didn’t know flowers’ names
would hate that hand because
it tarnished the death of the roses or so I thought).
But maybe that plant was already rotten
in a ditch before the massacre.
Then it was the animals’ turn
the nocturnal eyes of the house:
a hermaphrodite mutt
a cross between a chihuahua and Tina Pica
a twisted idea in the form of a dog.  
It would bark to prove to the world
it wasn’t a Mexican fancy
but one octave higher nasty
so you thought of the rebukes howled
by your phlegmy grandmother
drunk on wine and water whose grandson stole her toys.
That grandmother-dog was so brave
as long as she stayed in your arms and from there
called out to armies and camorrists
and how disgusted she was with her own kind
hopeless dogs and with the miserable
sex they offered her.
An available female and a wastrel
in the tête-à-tête with food 
the only male that didn’t scare her.
Seeing her die in the throes of a night
the ever-fainter trace of her breath
rippling across her lip above her teeth
deep down in the paralysis of her eyes
open wide with surprise Doggone it I’m dying
was a kind of practice for the other vigils.
And a pair of cats who lived together more uxorio 
(showing themselves in their righteousness like good bourgeois).
He with the Neapolitan face
running under his cheekbones the agile features
of a comedian: you were reading the joy the anguish
the tedium of the all quiet in the desert.  
You had never seen a cat so transparent
so unpoetic.
She swollen like a huge tiger-striped beignet
by way of an operation:
she cat-wife-mother he cat-boy
in slippers with few opinions
and no secrets. He died first
she three months later crushed with grief
like Giulietta and Sandra.  
Cats teach you how to die:
just watch them play around on the edge of a chasm
stuff themselves and take out loans on the last day
follow the curve to the point of impact
with the moralist coming the other way.
Finally it’s the people’s turn:
the one who had planted the
trees and the roses the so-called gardener
qualified at least at one time
who had nursed the cats’ kittens
and taken the hermaphrodite freak dog for a walk
the sex that called for the last confidence
of the tongue the deflated body of the father
without refuge between the obscene white sheets
the mother’s belly laying on a plank
and there too in those all too human deaths
you didn’t see the will of time
and fate but another that was not
the one tearing out the roses
and not even the one implied by God
no separation no moral
no farewell no peace
not even the suds of eternity 
only a contradiction so better to get rid
of everything that is born and makes noise:
people animals plants
eyes mouths words verses
and their clumsy penchant for absence.



Piccole manovre dell’abbandono


Le prime a cadere sono state le piante
non per volontà del tempo o del destino
ma del finto giardiniere
che le aveva ficcate nella terra.
Messe lì per dominare sulla voragine
del cortile erano ridicole: uno sbuffo verde
intorno al grigio su quattro righe di terra
macilenta quattro aiuole fallite
con un po’ di impegno tombe di passeri
neanche i vermi ci dormivano comodi.
Affacciate sull’asfalto in coda alle automobili
parevano sfottere non si sa cosa:
la natura la tecnica l’arte dell’equilibrio.
Ma erano piante vere con la linfa e foglie
che cadevano davvero e rinnovavano
il cerchio dell’esistenza i suoi disegni,
trattandosi di alberi, sempre concentrici.
Gli uccelli che ci stavano al riparo
erano veri uccelli con le piume e il becco
e anche le cicale d’estate facevano
le loro pernacchie ascellari che sentivi
fino allo sconquasso del cuore
nel sonno pomeridiano.
Le piante avevano radici che spaccavano
l’asfalto: formavano crepe sulla superficie
come quelle sulla crosta del pane.
Perciò decisero di abbatterle
le piccole e le grandi:
il pino di tredici metri
e la pianta di rose aggrappata al cancello
(ogni tanto una mano giallastra
ne prendeva una per portarla in chiesa
e io che non sapevo i nomi dei fiori
odiavo quella mano perché
sporcava la morte delle rose o così credevo).
Ma quella pianta forse era già marcita
in un fosso prima del massacro.
Poi è stata la volta degli animali
gli occhi notturni della casa:
una bastardina ermafrodita
mezza chihuahua mezza tina pica
un’idea storta a forma di cane.
Abbaiava per dimostrare al mondo
di non essere un’invenzione messicana
ma con un’ottava più alta incarognita
che pensavi ai rimproveri ululati
dalla nonna catarrosa
ubriaca di vino e acqua a cui il nipote rubava i giocattoli.
Aveva tanto coraggio quella nonna-cane
finché ti restava in braccio e da lì
sfidava gli eserciti e i camorristi
e che schifo aveva dei suoi simili
cani senza rimedio e del sesso
miserabile che le offrivano.
Femmina disponibile e cialtrona
nel tête-à-tête col cibo
l’unico maschio che non la spaventasse.
Vederla morire nell’agonia di una notte
la traccia sempre più debole del fiato
che le increspava il labbro sopra il dente
a fondo nella paralisi degli occhi
sbarrati dalla sorpresa Dio cane sto morendo
fu quasi un allenamento alle altre veglie.
E una coppia di gatti vissuti more uxorio
(tradendosi il giusto da buoni borghesi).
Lui con la faccia napoletana
scavata sotto gli zigomi i lineamenti mobili
del comico: ci leggevi la gioia l’angoscia
la noia del niente di nuovo nel deserto.
Mai visto prima un gatto così trasparente
così impoetico.
Lei gonfia come un enorme bignè tigrato
per via di un’operazione:
lei gatta-moglie-madre lui gatto-ragazzo
in pantofole con poche opinioni
e nessun segreto. Lui morì per primo
lei tre mesi dopo schiantata dal lutto
come Giulietta e Sandra.
I gatti ti insegnano a morire:
basta guardarli scherzare sullo sprofondo
abbuffarsi e fare debiti l’ultimo giorno
seguire la curva fino all’impatto
col moralista che arriva contromano.
Infine è toccato agli uomini:
quello che aveva piantato
gli alberi e le rose il finto giardiniere
competente almeno una volta
chi aveva allattato i figli dei gatti
e portato a spasso il cane sgorbio ermafrodito
il sesso che chiedeva l’ultima confidenza
della lingua il corpo sgonfiato del padre
senza rifugio tra le lenzuola bianche oscene
il ventre della madre posata su un tavolaccio
e anche lì in quelle morti tanto umane
non ci vedevi la volontà del tempo
e del destino ma un’altra che non era
quella che strappava le rose
e neanche quella sottintesa di Dio
nessun distacco nessuna morale
nessun commiato nessuna pace
nemmeno una schiuma di eternità
solo un contraddirsi per sparire meglio
di tutto ciò che nasce e fa rumore:
uomini animali piante
occhi bocche parole versi
e la loro maldestra inclinazione all’assenza.



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