Non ho mai avuto né guidato
un’auto; perciò la città l’ho sempre percorsa a piedi. L’ho camminata tutta.
Non era una gran fatica – mica vivevo a Città del
Messico – ma per anni i miei amici mi hanno considerato un marciatore
nottambulo votato al pericolo, solo perché percorrevo a piedi il tragitto dalla
vecchia periferia al centro. Quindici minuti. Quindici minuti a passo svelto,
diciassette, diciotto al massimo, se non avevo fretta. Un quarto d’ora
all’andata; lo stesso tempo al ritorno, anche a notte fonda, con la papagna che
avvolgeva tutto, chiese, panchine, russatori e amanti pigri. I cani no, quelli
la notte erano svegli e mi accompagnavano volentieri. “Dove abiti? In via
Montemitro?! E ci vai a piedi? Uh, come fai? Non hai paura?” mi chiedevano le
ragazze a cui non potevo dare un passaggio con la Torpedo che non avevo. “Ci
vado a piedi, sì, e no, non ho paura”. Non voglio ribaltare il luogo comune
della città che di notte s’incarognisce, diventa ladra e balorda e tende
agguati. Non voglio dire che il luogo della mia giovinezza fosse il più sicuro
del mondo, sebbene nessuno mi abbia mai aggredito, uomo o cane che fosse; né
fare l’elogio stanco della lentezza, che tutto ti regala come una scoperta.
Dico che mi sono accorto di vivere in periferia solo quando me l’hanno fatto
notare. Il centro era quello in cui arrivavo per incontrare gli amici disposti
a marciare con me. Ho camminato tanto, con lo sguardo a terra, per la paura di
inciampare, guardandomi poco intorno. Per anni ho confuso i nomi delle chiese;
mi vantavo di conoscere meglio quelle di Firenze. Bearsi della propria
ignoranza è la forma peggiore di cretinismo. Camminare e non saper guardare.
Per anni è stato un problema. Poi ho imparato a riconoscere gli edifici, le
strade, le insegne luminose. Fino al 1983 ho vissuto in un rione centrale o
quasi. Dal balcone del salotto potevo vedere, oltre la terrazza della casa di
fronte, gli alberi della Villa comunale. Mio padre ci portava lì la domenica,
me e mia sorella, e ci scattava decine di foto. Le faceva anche alle aiuole e agli
alberi. Qualcuno ci scambiava per turisti, e in un certo senso lo eravamo.
“Siamo studiosi di botanica. Ci
interessano solo le piante” rispondeva mio padre.
Il curiosone rimaneva deluso, perché in città di turisti se ne vedevano pochi. Qualche anno dopo ci siamo trasferiti in un quartiere periferico. Quattro palazzi di sei piani allineati lungo la strada, picchettavano una propaggine della campagna, che sboccava in uno slargo di fango e sterpaglie. Nel mezzo del niente, una masseria sciancata, con le mucche e un maremmano abruzzese, che abbaiava incazzato alle mie incursioni. Per andare a scuola dovevo attraversare il passaggio fangoso e inevitabilmente, specie se era piovuto, la melma mi entrava nelle scarpe. Sotto il banco avevo sempre il mio pantano da asporto personale, di cui mi vergognavo tanto e che il professore notava prima dell’appello. Non dovevo neanche giustificarmi; lo faceva il mio compagno di banco, che forse si vergognava più di me:
“Niente... sono i suoi fanghi
(sic) ”.
E lì arrossivo, come se il
fango, che avevo cercato di nascondere con le suole e col pensiero, lo avesse
prodotto il mio corpo. In quell’istante avvertivo la distanza tra il centro e
la periferia. Il luogo in cui si vive e quello in cui la vita, o ciò che le
somiglia, accade. Ogni arrivo era il sedimento di un’avventura senza sollievo;
quei tre chilometri, una prova da superare con lo zaino in spalla, e io un
pellegrino che ignorava i nomi delle chiese.
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