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The Name, translation into English by Samuel Fleck



You can barely fit inside your name.
You see the almost full moon
of the letter it starts with
you have the illusion you’re resting your back there
it promises to be so round and soft.
Instead it is the unfortunate
consonant of Come on? Can you?
when you hear your name uttered
you recognize the fearsome casting-off
the summons of the border guard
to declare something to her.
Just your name;
the heretical look of the officials
who pass it around from mouth to mouth
breaking it down to a word they can trust.
They look at you lurking behind their eyelashes
they ask you to show proof of your worldly inconsistency.
Proof sealed in your name. 
You’re not all the way inside your name:
a little bit always pokes out
a foot hanging over the edge
but it’s not a hammock you can’t be comfortable there
remain silent make yourself wait:
it’s an icepick for sticking in your side
scraping at the varnish—as they call it—
of being-appearing
shaving off that little bit of color
that resembles a smile
and a two-syllable sound
that kicks off the investigation:
whoever calls you by name
wants to learn you to take you in reluctantly
to deal with you one centimeter at a time
or worse all at once from top to bottom
from the tip of your hair to the trail of your breath.
Whoever says your name turns you around
without asking your permission
and you hope your name
hides you in a cowl
from the people in front of you
and around you who all have the same name
different from yours so empty
that sounds like that of a redskin Indian
(you know the men who scowl and are clouds
or make war and are flashes in the night
or unsleeping falcons: the proper name
to each his own
made of a bread not for sharing.)
You happen to die
and then your name melts all over you
sparkles like a tin can
tied to the tailpipe of a car without a groom
and you stay right where you started.
They carve it in wood on the license plate
that lights up your empty place
and you from the egg to which you returned
the soul mixed with the giblets
from behind the husk in which you sit still
in your new body
with your liquid nails
you can’t remove it.
The name that goes on clearing its throat
under the moon and under the sun
even if it has forgotten you.



Il nome


Il tuo nome fai fatica a starci dentro.
Vedi la mezza luna quasi piena  
della lettera con cui comincia:
ti illudi di riposarci la schiena
tanto è rotonda e morbida la sua promessa.
Invece è la consonante
inopportuna di Come? Cosa?
Quando senti pronunciare il tuo nome
riconosci dall’abbrivio spaventoso
l’invito della guardia di confine
a dichiararle qualcosa.
Giusto il tuo nome;
l’espressione eretica delle impiegate
che se lo passano rimpicciolito
di bocca in bocca per credere a una parola.
Ti scrutano in agguato tra le ciglia
ti chiedono di esibire le prove
della tua inconsistenza terrena.
Le prove sigillate nel nome.
Non ci stai dentro tutto nel tuo nome:
spunta sempre un pezzetto
un piede che dondola dal bordo
ma non è un’amàca non ci puoi stare comodo
rimanere in silenzio farti aspettare:
è un punteruolo per entrarti nel fianco
grattare la vernice - la chiamano così -
dell’essere-apparire
raschiare quel po’ di colore
che somiglia a un sorriso
ed è un suono di due sillabe
che dà il via allo scavo:
chi ti chiama per nome
vuole impararti saperti controvoglia
occuparti un centimetro alla volta
o peggio tutto insieme da radice a radice
da quella dei capelli a quella dei respiri.
Chi ti nomina ti ribalta
senza chiederti il permesso
e tu speri che il tuo nome
ti nasconda in un cappuccio
a quelli che hai davanti
e intorno tutti con lo stesso nome
diverso dal tuo così disabitato
che suona come quello di un indiano pellerossa
(sai gli uomini che si accigliano e sono nuvole
o fanno la guerra e sono lampi notturni
o falconi insonni: il nome personale
a ciascuno il suo
fatto di un pane che non si condivide.)
Ti capita di morire
e allora il nome ti si scioglie addosso
sbrilluccica come un barattolo
legato alla marmitta di un’auto senza sposo
e tu rimani lì da dove sei partito.
Lo incidono sul legno sulla targa
che illumina il tuo vuoto
e tu dall’uovo in cui sei rientrato
con l’anima mischiata alle frattaglie
da dietro al guscio in cui te ne stai composto
nel tuo corpo nuovo
con le tue unghie liquide
non riesci a cancellarlo.
Il nome che continua a schiarirsi la voce
sotto la luna e sotto il sole
anche se ti ha dimenticato.








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