Negli anni Settanta la violenza era monete corrente, soprattutto negli asili d'infanzia. Nel 1975 ero troppo basso per capeggiare un corteo (non lo avrei fatto neanche dopo), ma potevo guardare quasi dritto in faccia le suore dell’asilo “Iantoschi”[1], grifagne soldatesse di una pace tutta loro. Ce n’era una col muso grigio puntuto, che annusava tutto, una nasca lunga da formichiere in agguato, pronta a sedare rivolte allegrissime e duelli al penultimo sangue, che poi sangue non era ma moccio. Giocavamo ai pistoleri. I revolver non li forniva la direzione e allora ce li facevamo noi, piegando a triangolo i fazzoletti di stoffa, a volte freschi di bucato, a volte punteggiati di caccole, tutti buoni per ammazzarci a ripetizione. Il nemico, anche il più carogna, non ci tormentava mai come la suora che irrompeva nelle nostre file e ci disarmava a uno a uno, togliendoci le pistole, linde o sfraffate[2] che fossero. Quei giochi le suore non li tolleravano: erano sbagliati, dicevano, maleducati, cattivi, un esercizio di violenza gratuita e via biasimando. Non voglio essere frainteso: non ho avuto nessun trauma joyciano, con la sua bava di peccati e sensi di colpa. Non voglio nemmeno disegnare l’idillio dell’infanzia, terra felice sporcata dal passaggio dei grandi scarabei stercorari, gli adulti, la loro consapevolezza, il loro senso del dovere e della misura. Delle suore ricordo solo le irruzioni, quelle sì violente, che scompigliavano senza rispetto le nostre fantasie. Per il resto del tempo saranno state le migliori educatrici del mondo, ma ci impedivano di sparare con dei fazzoletti a salve, e questo dice molto sulla loro competenza. Gli riconosco l’attenuante della buona fede (o della fede e basta), se davvero cercavano di estirpare l’aggressività dalla nostra immaginazione, ma erano sforzi inutili. Non ci prendevano sul serio, ecco il loro sbaglio. Quella cosa, la violenza, o chiamiamola come vogliamo: un paragrafo sempre aperto, un’idea che ci colava dal naso, una tentazione armata di pennarelli a spirito, nelle nostre teste vorticava sempre. La evocavamo di continuo, dandole i connotati più seducenti; dividevamo l’umanità in due specie: quelli che le davano e quelli che le prendevano. Dominatori e dominati andavano riconosciuti al primo sguardo. Tu lo meni a quello?, mi chiedevano per sfidarmi i miei compagni, indicando un collega di bambineria un filo più alto di me. Mettevano alla prova il mio coraggio, già allora scarsissimo. La domanda non la capivo, la eludevo con la logica: Come faccio a menarlo? Non vedi che parlo con te? Poi capitava che ci si menasse davvero, nel modo in cui possono farlo i bambini, il peggiore, il più gratuito, perché privo delle esitazioni sociali degli adulti. Non temevamo la polizia, che peggio del Formichiere non poteva essere, né di fare male a qualcuno, perché lo scopo era proprio quello. Le suore ci impedivano di sparare e allora usavamo le mani. Parlando in prima persona mi allargo non poco, ché di fare a botte io non avevo voglia. Gli altri invece erano molto più motivati di me. Se non tiravano cazzotti, li promettevano; minacciavano torture, massacri inevitabili che avrebbero coinvolto te e la tua famiglia. Si organizzavano in bande. La più feroce la comandava Massimiliano, il ras della stanza dei giochi. Di lui avevo tanta paura, e non ero il solo, sebbene a vederlo non lo avresti detto un assassino con tutti i crismi: aveva una frangetta castano-bionda troppo perbene, e uno sguardo troppo languido per contenere progetti omicidi. Eppure io credevo a tutto quello che mi diceva in mensa, quando sentenziava che per me e per i miei non ci sarebbe stato scampo. La sua Battuglia ci avrebbe annientati tutti. La Battuglia non sapevo che cavolo fosse. Me la immaginavo come un gigantesco randello meccanico, un congegno di morte, che Massimiliano e il suo clan avrebbero roteato con un telecomando, per farlo piombare sulla mia casa e demolirla. Ne ero terrorizzato. Lo pregavo di risparmiare almeno i miei. No, nessuno si sarebbe salvato. Nemmeno mio padre, che era una specie di sbirro. e quindi il primo nemico da abbattere. La sua pistola d’ordinanza contro la forza irresistibile della Battuglia non sarebbe servita a niente. Questo mi prometteva Massimiliano, e strizzava la lingua tra i denti che filtravano una schiumetta bianca, per sigillare la minaccia con una smorfia spaventosa. Un solo evento avrebbe potuto impedire il massacro: il mio ingresso nella banda. Mi contraddico ma è così, ho desiderato farne parte dal giorno stesso in cui avevo saputo della sua esistenza. Un desiderio ingigantito dalla certezza che uno molle come me non l’avrebbero preso mai. Anche il mio odore era sbagliato: un misto di borotalco e di un’insopportabile crema color rosa gambero, che mia madre mi spalmava sulla faccia ogni mattina, e che mi faceva sentire una donna mancata, un puzzolente maschio-femmina. Non mi andava di tirare pugni, meno che mai di fare una strage, eppure mi affascinava l’idea di esserne complice, da teorico o sobillatore laterale. Sperimentavo la partecipazione morale a un crimine, l’ideale dei vigliacchi e dei pigri che mandano avanti gli altri per lucidare al calduccio le loro strategie. Era il ruolo giusto per me. Non avevo fatto un minuto di scuola e già mi sentivo un cattivo maestro. Sarà per questo che Massimiliano mi disprezzava, nel cuore e davanti a tutti: aveva bisogno di manovali schifosi, di gente disposta a seguirlo ovunque; se necessario anche fuori dal cortile, forse addirittura fuori dall’asilo, oltre il marciapiede, al di là delle nostre Colonne d’Ercole. Io invece ero un ideologo col paniere a tracolla, una trippa di verme, perché ero troppo grasso e flaccido per le fughe veloci e non mi piaceva lo sport. L’azione per me era il ciak del regista, non la sortita che strangola il nemico nel sonno. Il pensiero di fiancheggiare uno sterminio a colpi di bastone, srotolava davanti ai miei occhi un tappeto colorato: sarei entrato da trionfatore nella società dei grandi, ma il mio nome lo avrebbero gridato in pochi. Di sicuro lo avrei raccontato ai miei. Sentivo già addosso le loro occhiate dolci di meraviglia: Tu in una banda? Tu un assassino, e senza il permesso dei genitori? Ma che cattivo! Ma che bravo! Non ero portato per lo scontro fisico, ma avevo una segreta inclinazione al sadismo che prometteva bene; speravo che lui l’avrebbe notata. Esercitavo il mio talento su una bambina giovane (aveva tre anni, forse tre e mezzo) morbida, timidissima, che stava sempre in disparte e sorrideva solo a me. Nell’ora della merenda in cortile, lasciava accanto a sé sulla panchina uno spazio, piccolo ma accogliente, e io lo occupavo subito perché sapevo che era roba mia. Lo spazio che il predatore governa nel momento dell’assalto. Mi sedevo vicino a lei per farla soffrire. Le prendevo la mano, stringendola più forte che potevo. Quando iniziava a piangere, gliela baciavo, la mano offesa, e appena i suoi occhi si rasserenavano, ricominciavo il gioco. Che forse un poco piaceva anche a lei, se continuava a sorridermi ogni mattina, e a ogni merenda mi lasciava un quadrato di luce sul sedile. Ero io il volto invisibile tracciato sulla pietra: così mi chiedeva di riprendere il dialogo sentimentale interrotto il giorno prima. Almeno così mi pareva. Se quella tenerezza fatta di silenzi fosse amore non lo so, ma gli somigliava troppo per piacermi. Già il sospetto mi dava fastidio. L’amore è per tutti, la guerra per chi ne è degno, pensavo, grossomodo; il concetto nella mia testa non era tanto preciso. Il sì che aspettavo non era quello di una donna. Massimiliano un giorno mi diede una speranzella: uno dei suoi si era ammalato di qualcosa, perciò si era liberato un posto. Ero euforico, avrei fatto parte di un gruppo di bastardi; sarei stato il consigliori del Capo e, già che c’ero, avrei evitato l’uccisione dei miei, e soprattutto la mia. Quel sogno a occhi spalancati sfumò in un istante. Non ero riuscito nemmeno a scriverne la sceneggiatura, poiché il tipo che avevo scalzato per mezz’ora, guarì prima del previsto. Non avrei partecipato a nessun'azione spericolata, a nessun assalto alla dispensa, a nessuna faida per un mattoncino del lego. Ogni impresa moriva lì, nell’immaginazione dov’era nata. (La stramaledetta immaginazione che di guai me ne avrebbe procurati tanti.) Rientravo nei ranghi, senza avere assaporato la gioia di stare dalla parte del torto. I pugni, le botte, il sangue dal naso, erano ghirigori su un muro, delle belle fregnacce mai tradotte in pratica. Così sarebbe stato per poco più di un anno. Alla fine dell’estate del 1977 cominciai la scuola elementare. Non c’erano più le suore, e qualche scazzottata avrei potuto vederla e sentirla da vicino. La frase-apriscatole: Tu lo meni a quello?, che conoscevo tanto bene, avrebbe cambiato intonazione, appena un po’, per farsi capire meglio. Massimiliano frequentava la mia stessa scuola, cinque aule più in là, dall’altra parte del corridoio. Ogni tanto lo incontravo nell’androne o all’uscita, mentre scendevamo la scalinata che immetteva sullo slargo di fronte all’istituto “Càvour” (detto così, con l’accento sulla a). Mi sorrideva e strizzava la lingua tra i denti, rinnovando l’antica minaccia. Era il suo modo di salutarmi. Non so se avesse messo insieme un altro mucchietto di bastardi pronti a morire per lui. Di bande in quel periodo non sentivo parlare: c’era solo la banda musicale del maestro Quaranta, rimpinguata di giovani elementi dalle lezioni gratuite che la scuola organizzava, forse più per fare un favore a lui che agli alunni meno abbienti. Che Massimiliano continuasse o no la sua scalata criminale, la cosa non poteva toccarmi: di lui non avevo più paura perché, durante il tempo delle minacce continue e dei pugni promessi ogni giorno e mai dati - vedrai che ti faccio, aspè aspè - nessuno aveva perso una goccia di sangue, e l’unica violenza che avessimo conosciuto, io, lui e gli altri, era stata quella della suora ruba-fazzoletti. Ho usato di nuovo la prima persona, mannaggia. Massimiliano era stato un capo. Per una fantastica mezz’ora, anche il mio capo. Lo era stato perché, nello sguardo languido cattivo; nelle minacce soffiate in mensa, da nipotino di Marlon Brando, col rigatone al sugo in bocca al posto dell’ovatta; nel carisma che arrivava ai gesti più che alle parole, e perciò mi soggiogava, fermentava un pensiero adulto. Un’aspirazione o una condizione raggiunta senza il male d'ossa di crescere. Massimiliano nel paese dei grandi entrò senza volerlo; ebbe giusto il tempo di scoprire che era un posto scomodo e oscuro, in cui si entrava una volta sola. Un giorno di febbraio del 1982, qualcuno prese sul serio la sua parlata sbruffona o il suo modo di strizzare la lingua o la sua espressione da piccolo capobanda, o non so cosa. Non lo so, non è importante saperlo. Una mattina riconobbi il sorriso canagliesco di Massimiliano in mezzo a un articolo di giornale scivolato in fondo alle cronache cittadine. Un uomo, un venticinquenne con una moglie bruna e un figlio in arrivo, lo aveva picchiato fino a ucciderlo e ne aveva buttato il corpo in un pozzo nelle campagne di S. Lo trovarono dopo due giorni. Avevo quasi undici anni, leggevo i giornali di mio padre, e già da un po' avevo smesso di credere che si possa sparare con un fazzoletto.
[1]
Leone Amedeo Iantoschi (1848-1915), umanista e filantropo, apparteneva a una
delle famiglie più in vista della città. Qualcuno sosteneva che fosse imparentato
col filologo Ignaz Jandowsky, ma ci credevano in pochi. Poeta mediocre e
mediocre traduttore dei classici latini, da giovane aveva avuto una vita
disordinata, di cui da vecchio ebbe il buon gusto di non pentirsi. Viaggiò in Europa e in Sud America, dove si diceva che avesse fatto fortuna
con affari quasi tutti leciti. Tornato in Italia, si dedicò alla beneficenza,
specialmente a favore dei bambini abbandonati, che gli erano sempre piaciuti. Argomento con
cui i suoi detrattori si divertivano molto, alludendo al fatto che il sostantivo per lui contava più dell'aggettivo.
[2]
Sporche di fraffo, cioè di muco.
Commenti
Posta un commento